Di nonne naziste e di pancake palestinesi
È da qualche settimana che voglio scrivere della nonna nazista. Ne ha parlato di recente anche il Times of Israel. Si tratta di Ursula Haverbeck, 95 anni, una pensionata tedesca condannata più volte per negazione della Shoah e incitamento all’odio. Nell’ultimo procedimento a suo carico, ad Amburgo, è stata condannata a 16 mesi di reclusione per alcune dichiarazioni negazioniste, rilasciate in particolare alle televisioni: «La Shoah è la menzogna più grande della storia». A giugno, l’ennesimo giudice ha ricordato un aspetto importante: la signora Haverbeck utilizza i processi stessi per diffondere e ribadire le proprie convinzioni.
Sfoglio le sue fotografie, e ammetto che in quel volto non riesco a vederci la signora Haverbeck, attivista neonazista, ma una qualsiasi nonna Ursula, che aspetta i nipotini con la torta per la merenda e prima di cena guarda l’ispettore Derrick in tivù.
Ad aumentare l’effetto simpatia, la signora Haverbeck è stata soprannominata nazi grandma, nonna nazista, un nomignolo che sembra più uscito dalle Sturmtruppen di Bonvi che dalla cronaca. Fatto sta che Ursula scrive articoli negazionisti, e la negazione della Shoah in Germania è un reato penale. Nel suo caso, il nostro sguardo superficiale la giudicherebbe soltanto una rimbambita che straparla, ma i magistrati negli anni hanno considerato le azioni e le dichiarazioni di Haverbeck frutto di un pensiero ben ponderato.
Già nel 1990 coltivava legami coi neonazisti di NPD (curioso che uno dei più folti gruppi politici neonazisti in Germania si chiamasse “Partito Nazionaldemocratico”), poi conobbe l’avvocato dalle simpatie neonaziste Horst Mahler e fu eletta vicedirettrice della Verein zur Rehabilitierung der wegen Bestreitens des Holocaust Verfolgten, ossia un’associazione che aiuta “i perseguitati per aver negato lo sterminio degli ebrei”, fondata il 9 novembre 2003: che coincidenza, proprio nell’anniversario della kristallnacht. Tra i membri, Bernhard Schaub e Robert Faurisson, celebri negazionisti. Condannata nel 2004 perché sulla rivista Stimme des Gewissens (la “Voce della coscienza”) negava la Shoah e scriveva che lo sterminio fosse “un mito”. Nel 2005 cercava di riabilitare la figura di Hitler. Nel 2009 attaccò Charlotte Knobloch, la presidente dello Zentralrat der Juden in Deutschland, scrivendole di tornarsene in Asia minore “da dove viene la sua gente”, e di prepararsi per il “giorno della verità, vicino e inarrestabile”, minacciandola che “se continua a interferire con la Germania, potrebbe verificarsi un nuovo pogrom”.
Dal 2015 Haverbeck ha inanellato altri processi. Condannata a dieci mesi per la negazione di Auschwitz come luogo di sterminio, a undici mesi per incitamento all’odio, altri due anni e mezzo per negazione della Shoah, fino al processo dello scorso giugno. E questa è solo la sintesi: quando leggi il suo curriculum penale, il volto di Haverbeck non ti sembra più quello di una simpatica nonnina.
In vino veritas, in scarpe Adidas
Con l’approssimarsi dei giochi olimpici di Parigi, Adidas ha pensato bene di rilanciare uno dei suoi modelli iconici, le SL72, nate poco tempo prima delle olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972. Il problema è venuto dalla modella scelta per il rilancio, Bella Hadid, indicata come troppo esplicitamente pro-Palestina.
I social di Hadid sono aperti, e anche senza account (come me) si possono scorrere le diverse timeline. Ci ho fatto un giro, e devo dire che non ci ho trovato nulla di speciale. Sono i classici social da modella, con tantissime foto in posa, alcune foto di momenti quotidiani, che poi tanto quotidiani non sono perché sono in posa pure quelli, e qui e là (ma davvero pochissimi) si legge qualche generico “free Palestine”, una volta inscritto nell’immagine di un cuoricino, un’altra insieme a un alberello, un riferimento o due alla Nakba, una richiesta di aiuto per i poveri in Pakistan, un appello a limitare la vendita delle armi da fuoco in USA, qualche aforisma di Gibran. Non ci ho trovato attacchi a Israele, sempre che abbia guardato bene, ma scrivetemi se avete notizie più precise.
Dato però che le olimpiadi del ‘72 sono ricordate soprattutto per il rapimento e l’uccisione degli atleti israeliani da parte dei terroristi di Settembre Nero, l’associazione tra quel ricordo e la scelta della modella musulmana (suo padre ha origini giordano-palestinesi) ha generato un caos di comunicazione, finché Adidas non ha ritirato la campagna pubblicitaria. Bella Hadid ha fatto ricorso contro l’azienda e devo dire che la capisco: essere associata a un gruppo terroristico, pur nel mondo ipocrita del marketing, non fa piacere a nessuno.
Notizia nella notizia: stanno davvero tornando i pantaloncini di spugna che indossavamo da bambini negli anni ‘80?
Incitamenti
Eppure sono tutte parole, solo parole. Scritte sui giornali stampati, dette alla radio o in televisione, trascritte sui social. E quando si parla di parole sotto accusa, ammetto di avere le idee un po’ confuse. Caso per caso, comprendo che il confine tra la potenza delle parole e la loro irrilevanza è sottile, e anzi a volte i processi stessi (come sottolineato dal giudice di Amburgo) o le cancellazioni di contratti danno potenza a parole che di per sé sarebbero state meno rilevanti.
Sulle parole però si coltiva l’identità, e le azioni che ne conseguono. Tanto più quando si parla di razzismo. Mentre le parole di Hadid mi sono sembrate semplicemente un appoggio alla causa umanitaria palestinese, le parole di Ursula Haverbeck, e di tutti quelli che hanno scritto cose come le sue, creano invece uno strato sempre più spesso di convinzioni, convincimenti, immaginario. Per capirci, le prime non incitano alla violenza, le seconde sì. Quanto siano legati la negazione dello sterminio e l’incitamento all’odio, è presto detto: dipendono l’uno dall’altra.
Una nazione come la Germania combatte le parole negazioniste e antisemite per difendere i propri cittadini. Un’azienda come Adidas semplicemente vuole evitare le grane online, e vendere più scarpe che può.
Le parole, non dimentichiamolo, possono essere già violenza. Chi odia si sente spesso rinfrancato da una storia di odio, appoggiato nelle proprie pulsioni, giustificato nei pensieri. Finché pulsioni e pensieri non si concretizzano.
L’identità del nuotatore
Capisco la notizia per la partenza della delegazione olimpica israeliana, ma con l’avvicinarsi delle olimpiadi, più di un mezzo di informazione online ha parlato degli “ebrei ai giochi di Parigi” nelle altre delegazioni. Per esempio, ci saranno la wrestler Amit Elor (USA), la canoista Jessica Fox (Australia), la rugbista Sarah Levy (USA), il giocatore di beach volley Sam Schachter (Canada), la campionessa di skate-board Minna Stess (USA), la maratoneta keniota Lonah Chemtai Salpeter (naturalizzata israeliana).
È una cosa che accade ciclicamente. Di recente leggevo articoli su un giocatore di baseball, Garrett Stubbs. È un battitore e gioca nei Philadelphia Phillies.
Sono ebrei diversi, che vengono da luoghi differenti, non parlano la stessa lingua, hanno vite lontane. Alcuni, si legge dalle interviste, frequentano una sinagoga e celebrano i riti. Altri, pur provenendo da famiglie ortodosse, vivono la loro appartenenza in modo più distaccato. Cosa li accomuna? Cosa unisce questi ebrei logicamente diversi in tutto? Forse la parola jewish. Stavo per scrivere solo la parola jewish ma poi ho cancellato quel solo perché è tutt’altro che un solo, perlomeno per alcuni fra loro.
L’identità di questi atleti è quasi sempre dentro, nel loro intimo. Per chi è ebreo e fa cultura è forse diverso. Un attore o un regista ebreo lo si distingue dagli altri? Una scrittrice ebrea la si riconosce? A volte sì, a volte no. Per alcuni (che so, per Steven Spielberg e Cynthia Ozick) l’identità ebraica ha rappresentato ispirazione, confronto, tormento. Per altri assolutamente no.
Cosa contraddistingue invece una maratoneta ebrea da una che non lo è? C’è un modo ebraico di correre una maratona? E sullo skate? C’è una tradizione ebraica che contraddistingue gli skateboarder ebrei e che permette di riconoscerli?
Le domande sull’identità sono belle perché non hanno mai risposta. E poi c’è Adam Mara’ana.
È un nuotatore israeliano. Detiene il record nazionale dei 100 metri dorso. Nato a Haifa, ha la mamma ebrea e il papà musulmano. In un’intervista al New York Post ha rilasciato una bella dichiarazione.
Mia mamma è ebrea. Ho studiato la Torah, celebrato il bar mitzvah. Mio padre è un arabo musulmano. Di questo sono orgoglioso.
Orgoglioso di questa mescolanza. Le parole, nella scrittura, rimangono sempre distinte. Le storie e le vite, invece, si intrecciano.
La cura dalle parole, la cura senza parole
A proposito di parole, in Europa ci si interroga ancora se il ferimento e l’uccisione di così tanti civili nella guerra tra Israele e Hamas possa essere chiamato genocidio, tralasciando a volte che l’uccisione di civili va fermata comunque. Amos Goldberg, professore associato di Storia ebraica alla Hebrew University di Gerusalemme, sostiene che sì, è un genocidio. Molti altri, la maggior parte, sostengono che no, non lo è. Il dibattito mi appassiona relativamente.
Le sorti politiche di Netanyahu sono esse stesse legate alle sue parole, e Haaretz, tra le testate più critiche del governo in Israele, ragiona spesso sul linguaggio della politica, che da un lato promette e dall’altro chiede, a seconda dell’interesse del momento, da un lato indica una strada per la guerra permettendo attacchi anche su zone civili, e dall’altro non persegue il vero obiettivo dichiarato: liberare il maggior numero di ostaggi. Anche ieri ne sono stati trovati quattro, uccisi. In Israele non si fermano le proteste di piazza contro il governo, che gridano forte contro lo sfacelo verso cui la nazione è stata spinta. Nel frattempo, di là dal fronte, c’è chi ha fatto della resistenza una storia senza parole.
Basma Abu Shahla è palestinese, ha una trentina d’anni ed è madre di due figli. Ha studiato fotografia. Nella primavera del 2023 ha realizzato il suo sogno e ha aperto un negozio online di abaya e di sciarpe. Ha avuto molto successo. La sua casa dopo il 7 ottobre è stata distrutta dall’esercito israeliano.
Di lei parla proprio Haaretz in un bel reportage. Dopo 144 giorni di guerra, Basma ha pubblicato un video nel quale preparava pancake. Così. Quasi senza parole. Ciò che prima di ottobre era un gesto semplicissimo, mesi dopo era diventato un grande evento.
Basma racconta la sua vita e quella della sua famiglia attraverso il cibo che prepara per i figli e per gli amici. È cibo semplice, che arriva spesso dagli aiuti umanitari, sistemato nel piatto con una cura che stride con il panorama di macerie intorno. La sua casa non c’è più, la sua vita di prima nemmeno. Anche le parole non ci sono più, e vengono sostituite dalle immagini e dai profumi che quasi riusciamo a sentire. C’è qualcosa che permette di resistere, anche nella guerra, che permette a Basma e ai suoi figli di essere ancora qualcosa gli uni per gli altri. E lei per tutti.
L’identità è silenziosa. Nella guerra come nello sport. Ma noi, credo, noi che abbiamo cibo e tivù per guardare le olimpiadi, noi che guardiamo alla complessità del mondo passando attraverso la fragilità delle parole, qualche parola potremmo invece trovarla.