Raccogliere sassi, raccogliere amore
Amici
Cominciamo da Jonny Greenwood. Per chi non lo sa, è il chitarrista dei Radiohead, ma oggi non mi interessa per le sue composizioni musicali (tra le ultime, un viaggione per organo lungo otto ore) e nemmeno per il suo olio d’oliva (lo produce nelle Marche, dove pare passi lunghi periodi ogni anno). Parto da lui perché gli è stato chiesto di cancellare il prossimo tour con il musicista israeliano Dudu Tassa.
I due si conoscono da molto tempo, e hanno registrato un album uscito lo scorso anno. S’intola Jarak Qaribak. Lo ha mixato Nigel Godrich, il cosiddetto “sesto Radiohead”, uno che ha lavorato con molti big, tra cui Paul McCartney e gli U2. Jarak Qaribak mette insieme cantanti e musicisti da tutto il Vicino Oriente per un album di collaborazioni oltre le frontiere: ogni cantante prende a turno una melodia da un paese diverso dal proprio.
Tra l’altro, la moglie di Greenwood è Sharona Katan, un’artista visuale israeliana, ma le origini ebraiche della sua famiglia si perdono tra Iraq ed Egitto.
«Da anni ascolto quel genere di musica, in casa».
Ha detto Jonny Greenwood. E cosa ha risposto a chi gli diceva di fermare il tour solo perché Dudu Tassa è israeliano?
«No».
Jarak Qaribak si traduce più o meno così: “Il tuo vicino è tuo amico”.
Tempo
Ho sempre ritenuto insensati i boicottaggi culturali, di qualsiasi genere. Il tempo del boicottaggio culturale è in fondo arido, confonde artisti e nazioni, arte e regimi. Il tempo della cultura è invece lungo, come quello delle relazioni. E quello dell’amicizia ancora di più. Per Greenwood è ciò che conta, e ci piace così.
La parola tempo è tra le prime che ho pensato a metà maggio, quando al Lido di Venezia era comparsa una frase agghiacciante sopra un muro nella zona del Galoppatoio. Qualcuno aveva tracciato una scritta antisemita contro gli ebrei della città. Non riporto la frase e ancora meno una sua fotografia, ma l’orrore che mi ha provocato quella violenza è andato di pari passo con una domanda: quanto tempo ha impiegato chi l’ha scritta?
Anche disegnare una svastica ha lo stesso valore negativo, ma per disegnare una svastica occorrono pochi secondi e via. La scritta al Lido contro gli ebrei era lunga, davvero lunga. Immaginavo la vita di quell’individuo (maschio, ci scommetto): uno che entra dal ferramenta, compra una bomboletta di spray nero, torna a casa, aspetta la notte e invece di riposare esce di nuovo per scrivere quel che il suo odio gli suggerisce. E ci mette tempo, e in tutto quel tempo nemmeno un dubbio, un rimorso, un ripensamento sono passati là tra le sue orecchie, dove madre natura gli avrà pur dato un cervello.
Di fronte a un muro e a quella scritta, c’è una risposta immediata: catalogare le prove, aprire un’indagine, ridipingere il muro. L’indagine cancella la scritta ma non l’odio, e per l’odio la risposta immediata non basta. Ne occorre una più lunga, che esprime vicinanza e prova a lenire la solitudine degli ebrei veneziani, di chi esce di casa e pensa che “il tuo vicino è tuo amico”.
La Memoria viaggia su altri tempi, su tempi differenti. Chi fa Memoria lo sa. C’è bisogno di una risposta immediata, sì. Ma quella risposta ha senso solo se accompagnata dalla risposta lunga, dal lavoro quotidiano. È in fondo il lato più delicato e frustrante della Memoria e dell’educazione, il tempo: alla continua richiesta di risposte immediate che la società sembra imporre, l’educazione contrappone un percorso di slanci e di iniziative anche felicemente estemporanee, ma ben più lungo, meditato. Più profondo. Può fare altro? Credo di no, è la nostra misura.
«Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli».
È scritto nel Qohelet (3, 5). La Memoria, forse, è raccogliere sassi.
Teen
Cosa lega il tempo di ieri al tempo di oggi? Per Greenwood è l’amicizia che lo avvicina a Tassa. E per il passato? Ci risponde un film uscito in Israele e non ancora proposto in Italia. Lo ha diretto il regista Asaf Saban e s’intitola Ha’Mishlahat (La delegazione). È un misto tra Memoria e teen movie, racconta con gli occhi di tre adolescenti il tradizionale rito di passaggio per le nuove generazioni israeliane: il viaggio ad Auschwitz.
C’è l’inverno, c’è la Polonia. Ci sono le baracche. Ci sono le scarpe dei deportati (spoiler: una verrà rubata). C’è Treblinka. Ci sono le scene nella neve, ci sono gli alberghi con gli adolescenti in gita, ci sono i baci, le invidie, le notti, i pianti, ci sono ragazzi e ragazze che pensano a tutto (in verità, giusto a una cosa) fuorché ad Auschwitz, ci sono le corse, i desideri. E poi c’è la storia della Shoah che un po’ per volta entra nei loro discorsi, nei loro pensieri. E finalmente capiamo, e forse lo capiscono anche loro, che tutta la storia senza amore non è nulla.
Bonus: Patrilineare
Curate questo nome: Enrico Fink ha vinto la menzione speciale al Premio Calvino con una storia sua, della sua famiglia, della sua esperienza di musicista, perfino della sua tardiva circoncisione. Patrilineare è il titolo del suo romanzo inedito. Ma il protagonista del libro non ha il suo nome, così tutto diventa straniante. Quella che leggiamo è la sua storia, una storia che appartiene a lui, o è una storia nostra, che appartiene a tutti? Ho avuto la fortuna di leggere le bozze di quel romanzo mesi fa, e la mia risposta è solo e soltanto una: “Il tuo vicino è tuo amico”.