Il segreto di Virginia Gattegno

Virginia Gattegno è mancata questa mattina. Per lei, italiana ebrea deportata da Rodi ad Auschwitz, unica sopravvissuta di tutta la famiglia insieme alla sorella, e una delle ultime testimoni italiane del lager, sembrava che questo giorno non sarebbe arrivato mai. Abbiamo sempre visto Virginia eterna, come se il tempo per lei avesse rallentato la sua corsa fin quasi a fermarsi, e per noi no. Lei sempre giovane, sempre là, voltata a guardare il mare, sempre avanti con la testa e con la volontà, sempre pronta a spiazzarti, a deviare il corso dei tuoi pensieri di ieri verso un pensiero diverso, di domani. Eterna come la forza che l’ha condotta fino a qui, attraversando lo sterminio e la tregua e il ritorno a casa, e viaggi e speranze. Lei che ha compiuto ventun anni mentre la portavano via, eterna come sono eterne certe amicizie.

Il suo ricordo sarà di benedizione, si dice così, e non è mai una formula vuota. Lo si dice quando si pronuncia il nome di chi non c’è più. Ed è vero sempre, quando è stato vero in vita. E quanto, tanto, è stato vero in vita.

“Me ne starò nascosta / Un po’ per celia / E un po’ per non morire”, cantava la sua amata Madama Butterfly e forse Puccini aveva scritto quel pezzo tutto per lei. “Tienti la tua paura”, continuava il canto, e Virginia di paura ne aveva avuta, sì, e tanta quanta non riusciamo a immaginare.

Ma per lei che aveva fatto del ricordo uno sguardo pieno di silenzio e di immagini nascoste, intime, anche quando raccontava ciò che aveva passato, e quel che era accaduto alla sua famiglia, alla comunità ebraica di Rodi, c’era qualcosa di segreto. È il segreto di chi sa che il ricordo comincia prima della fine, e con esso la benedizione. Il suo ricordo, i suoi ricordi, sono diventati per tempo memoria e benedizione. E tutto questo è un segreto che Virginia non avrà più modo di svelarci perché, semplicemente, ce lo ha già svelato. Bastava ascoltarla. Per tutta la vita.