Il passato ha bisogno di noi

“Balliamo sotto il patibolo” era una delle frasi più ricorrenti nel ghetto di Terezin, nella Boemia occupata dai nazisti, non lontano da Praga. Là dove decine di migliaia di ebrei furono rinchiusi per essere poi deportati coi treni fino in Polonia, verso lo sterminio, i nazisti crearono un esperimento di propaganda unico nel suo genere. In alcuni periodi limitati, concessero agli ebrei alcune libertà apparentemente inspiegabili, documentarono tutto con fotografie e filmati, e consegnarono il materiale agli uffici della propaganda del Reich in Germania.
Fino all’arrivo dei nazisti, era attivo un laboratorio di strumenti musicali, fondato dalla famiglia Zalud e portato al successo dal suo discendente più talentoso, Pavel. I nazisti confiscarono gli strumenti musicali e li consegnarono agli ebrei, perché li suonassero nel ghetto. Credevo che gli strumenti Zalud, testimoni di un tassello importante nella discriminazione e nello sterminio della popolazione ebraica europea, fossero andati tutti dispersi. Mi sbagliavo, e nel tempo ne ho ritrovati diciassette.

Di questi, ho creduto fosse giusto esporre qui, a DIS-CHIUSURE, quelli a corde: si tratta di tre violini, una tambura bulgara, un mandolino, una chitarrina. L’opera di Kounellis protagonista dell’esposizione è giocata sulla sostituzione delle corde di un violino con segmenti di filo spinato, e sulle corde ho pensato fosse meglio rimanere.
Vengono esposti per la prima volta in Italia. L’affetto che mi lega a questi strumenti mi ha sempre portato a decidere favorendo le orecchie e non gli occhi, ho riportato questi strumenti a suonare in formazioni musicali differenti, e ho giurato che mai sarebbero finiti stabilmente in un museo. Finiscono qua solo perché l’evento è temporaneo. So che soffriranno un po’, dietro il vetro antisfondamento, perché amano farsi portare a spasso dai musicisti e suonare di qua e di là. Forse, nelle notti quando la sala è vuota e tutti noi siamo a casa, dialogheranno col violino di Kounellis.

Se voglio però fermarmi a riflettere sulle corde, voglio dirvi una cosa. Le corde dei miei violini sono nuove. Nuove, anzi nuovissime. Le ha sistemate con cura un liutaio, vivente naturalmente. Contemporaneo. Per permettere ai violini antichi di suonare, ci vogliono corde nuove. E così per tutti gli altri miei strumenti di Terezin: ai clarinetti serve una nuova ancia, ai flauti le nuove pelli, e di nuovo corde nuove per la chitarrina e la tambura, e per il mandolino. Occorre un elemento del presente per far funzionare il passato, occorre un lavoro al presente per far rivivere il lavoro del passato, occorre un musicista vivente per far suonare strumenti suonati un tempo da chi non c’è più. Per permettere al passato di parlare ancora, dirci ancora qualcosa, fidarsi di noi. 

Il passato ha bisogno di noi. E queste corde nuove dei miei violini e le corde di filo spinato del violino di Kounellis si parlano oggi. I violini sono certamente invidiosi dei loro amici violini liberi di suonare su questo palco. È una invidia musicale, ma è anche un’invidia per la vita. La stessa invidia (ma non voglio fare l’esegesi dell’opera di Kounellis) la vedo nel violino col filo spinato. È questa invidia, forse, a tenere un legame tra le opere esposte, e tra noi e loro. Un desiderio che è più forte di noi.

I violinisti suonano sempre o quasi sempre strumenti più vecchi di loro. Anzi, più sono vecchi gli strumenti e i più i violinisti sono felici. Il violino permette al violinista di essere. E il violinista permette al passato di ritornare, di vivere. Tutti noi siamo più giovani di questo mondo e di questa storia, ma la memoria è responsabilità di tutti, perché la storia non sia passata invano e permetta a ciascuno di noi di essere se stesso, e a tutti noi di essere noi, noi stessi.
Luciano Berio, nelle sue lezioni americane, diceva che la musica contemporanea è “un ricordo al futuro”. Rubo quelle sue parole per definire i miei violini: sono un ricordo al futuro.  La loro musica viene dal ghetto, il loro suono randagio ricorda a tutti noi quanto siamo randagi anche oggi. Ricorda a tutti noi che se siamo un ricordo, allora siamo anche futuro.