Spezzare il cerchio della vendetta
In Israele c’è un’associazione che si chiama The Parents Circle: il suo nome anglosassone rivela qualcosa in meno della traduzione di quello ebraico, che suona come “Il forum delle famiglie in lutto”. La sede è in una palazzina moderna a Ramat Gan (Tel Aviv) e raccoglie ebrei e musulmani accomunati da un’unica, drammatica coincidenza: avere nella propria famiglia qualcuno ucciso negli scontri tra israeliani e palestinesi. I membri dell’associazione, è facile immaginarlo, non sono pochi: si riuniscono regolarmente e organizzano incontri pubblici molto partecipati. Lo schema è sempre lo stesso, e prevede che due diversi ospiti, uno per parte, raccontino la propria esperienza e il proprio dolore, mescolando l’ebraico con l’arabo. Le lacrime e gli abbracci non hanno bisogno di traduzione: se la vita ha apparentemente diviso quelle persone, la morte di un loro caro le ha riunite.
C’è qualcosa da unire e c’è qualcosa da spezzare. Il “circle”, il cerchio, è qui segno di fratellanza e incontro: intorno a un cerchio i membri si ritrovano a parlare e ad ascoltarsi, a condividere la pena della perdita. Ma quel cerchio è anche simbolo da spezzare, perché rappresenta il reiterarsi violento e infinito della morte e della vendetta. L’associazione, pur speciale, non è una rarità: ne esistono altre in Israele, con finalità diverse e non per forza legate al lutto, e ciascuna a modo suo unisce e spezza. Erano presenti e attive anche nelle scuole di tutta la nazione, fino all’arrivo del nuovo governo di “Bibi” Netanyahu, che ha iniziato da subito a limitarne l’azione e la libertà. Le manifestazioni per l’indipendenza della giustizia degli ultimi mesi in Israele hanno visto spesso in prima linea le associazioni che quotidianamente e sottotraccia lavorano anche per questo genere di pacificazione.
Dopo gli attacchi terroristici di Hamas, i membri del gruppo stanno bene. Ma scorrendo l’elenco dei morti causati da Hamas, è piuttosto chiaro che nella prima ondata di questo nuovo capitolo di guerra siano state uccise persone che non appartenevano ai fomentatori del conflitto. I morti, i feriti, i rapiti, sono cittadini che andavano al lavoro o frequentavano la scuola pubblica, che ballavano a una festa, famiglie, giovani, anziani. Nonostante la cerchiamo, e ogni tanto ci illudiamo di averla trovata, dobbiamo accettare che non esista una visione dall’alto, come sulle mappe stampate nei libri di scuola, coi colori e le popolazioni, le etnie e le religioni, e con quel confine così desiderato in questi tempi stanchi e polarizzati: quello tra i buoni e i cattivi. Non c’è.
Esiste invece per gli ebrei, così come per i musulmani, quel percorso che ogni essere umano compie, fatto di scelte e di compromessi, di sicurezze e di slanci. L’identità ebraica, poi, è tanto più chiara quanto più ci si allontana da essa, mentre diventa caleidoscopica se vista da vicino: il cosiddetto “ebreo” (che gli antisemiti nominano al singolare perché rappresentativo di ogni ebreo sulla faccia della terra) non esiste.
Il simil-governo di Hamas è un governo terrorista, e per il terrorismo la complessità non esiste. Non esiste nemmeno se guarda a se stesso, poiché Hamas inquadra i musulmani in un corpo omogeneo e guerrafondaio, non trovando appoggio diffuso nemmeno tra i musulmani della Striscia (l’attacco è forse un segno di fragilità) e ancor meno dai musulmani del pianeta (guardate i giovani in Iran). Il governo Netanyahu non rappresenta soltanto un disastroso caso di gestione della sicurezza pubblica, ma si è dimostrato un esempio di banalizzazione della complessità, anzitutto della complessità ebraica (orientando troppe scelte ad accontentare esclusivamente l’ortodossia più spinta e i coloni dei territori) e di oppressione conseguente del popolo palestinese.
Oggi chi muore, tra gli ebrei e i musulmani, muore perché spesso sta in mezzo, muore perché lucidamente secolarizzato o perché vive nelle strade, vive sulla propria pelle la complessità delle scelte, la difficoltà della comunità, la pazienza del dialogo o la bellezza autentica della religione. Muore perché ama ballare, o togliersi il velo, o incontrare il “nemico”. L’arrivo di nuove armi dagli USA per Israele e di nuove armi dall’Iran per Hamas non farà che accrescere l’insicurezza e allontanare la pace. Le armi alimentano le vendette. The Parents Circle e gli altri gruppi culturali, associazioni, scuole israelo-palestinesi, hanno un presente difficilissimo e necessitano di un sostegno che non potrà essere governativo ma, spero, internazionale.
Lontani dalle banalità razziste dei social network (“Israele è come la Germania nazista”, “I musulmani sono terroristi ovunque nel mondo”), per spezzare il cerchio della vendetta è chiesto un passaggio ulteriore di fermezza nella pazienza e nel dialogo, perché crederci oggi fa più male di ieri, e agli occhi militarizzati e pigri dell’opinione pubblica pare perfino una scelta surreale. È l’unica strada, però, perché gli uccisi tra gli ebrei e tra i musulmani, gli uccisi tra gli israeliani e quelli tra i palestinesi, possano essere sepolti senza vendetta e riposare in pace. Dopo questi giorni terribili, se non sarà la vita a unirci, potrà unirci perlomeno la morte?