Il destino di una libellula

estate019

Ci si incontra di nuovo, vedrai. Prima o poi. Non pensavo per nulla a queste parole, stamattina, quando ho preso la macchina per andare in un paese a fare laboratori per il centro estivo. L’amico Paolo alla fine mi ha detto: beviamoci un tè verde freddo. E a un té verde freddo non puoi dire di no. E soprattutto all’amico Paolo. Così usciamo. Prendiamo le macchine e arriviamo nel mezzo del paese (i laboratori li faccio fuori, in un vecchio convento bellissimo). Sceglie il bar Paolo, perché li conosce tutti. Ci sediamo e stiamo naturalmente per ordinare il té freddo. All’ultimo momento cambio idea, e mi metto a raccontargli di una cosa che ho scoperto sull’acqua tonica e sul chinino e su come reagisce a certe luci in un teatro.

Ed è lì che arriva Caterina. O meglio: arriva una ragazza che lavora nel bar (oppure è suo, chissà) per chiederci cosa prendiamo. Rispondiamo e lei mi chiede: «Ma tu facevi l’educatore a Veano e avevi una libellula sulla spalla?»

 

Era bella, di un azzurro cangiante che sorrideva all’arancione. A pensarci, mi sono comprato una cravatta che le somiglia per metterla a un matrimonio, domani.

Nel 1997, esattamente sedici anni fa, Caterina aveva dieci anni e io ventidue. Facevo l’educatore e nella settimana ACR a Veano ero là, come tutti gli anni. Un giorno di quell’anno, erano i primi di settembre, una libellula vagabonda mi si era posata su una spalla. All’inizio ne rimasi impaurito e feci per scacciarla: a Veano ci sono bellissimi esemplari di calabrone, pesanti un paio d’etti l’uno, e quando ti pungono fanno piuttosto male. Lo dico per esperienza (due volte). La libellula non fece una mossa. Mi guardò come ti guardano le libellule, con l’aria di un insetto che ha sempre il mal di testa. Io la lasciai lì, pensando che sarebbe volata via dopo qualche secondo. Ci rimase tutto il pomeriggio.

Era bella, di un azzurro cangiante che sorrideva all’arancione. A pensarci, mi sono comprato una cravatta che le somiglia per metterla a un matrimonio, domani. Era bella e rimaneva lì, non se ne andava dalla mia spalla sinistra. Anche se la stuzzicavo, le parlavo, e anche se i ragazzi di Veano si avvicinavano, la carezzavano, lei rimaneva lì. Tuttora non mi spiego il fenomeno. Quando fu ora di farsi una doccia e di levarsi la maglietta, m’infilai nel parco e la posai sopra una foglia. La salutai a lungo pensando sinceramente che quella foglia sarebbe stata la sua ultima casa. Solo una libellula moribonda può restare attaccata a un uomo senza andarsene, pensavo. E invece no. Dopo un istante la libellula volò via, senza salutare. Segno che di volare era ancora capace. Non la vidi più.

Caterina era una ragazzina, allora. Oggi mi ha riconosciuto. Io in lei cercavo di riconoscere qualcosa della ragazza di allora, senza riuscirci. Anche se ha ancora un viso da ragazza e modi gentilissimi e occhi vispi. L’ho abbracciata, perché era l’unico modo per dirle grazie. Mi ha detto: «Non dimenticherò mai quella libellula». Difatti non ricordava il mio nome, non ricordava bene l’anno e nemmeno il tema del camposcuola o certe attività, nulla. Però quella libellula, a lei come a me, aveva cambiato il passato. E da oggi, in qualche maniera incomprensibile che solo il destino o il fato sanno spiegare, anche il presente.