I giocattoli di Maranello

Macchinina rossa rossa dove vai? A me veniva in mente solo questa filastrocca, mentre controllavo le ruote prima di partire. Mette acqua, mette sole? Metto gomme morbide per andar forte? Guardo la mia Fiesta millequattro diesel, blu, brum: ne hai fatta di strada, bimba, ti abbiam scarrozzata fino a Madrid. Ma oggi ti porto in vacanza da certe signore d’altri tempi. A questo penso mentre attendo Bruno alla stazione di Modena, arriva col treno, tatlan tatlan, mi viene incontro con un maglione rosso e un giubbotto dello stesso colore, sembra uscito da un paddock di Formula Uno, gli mancano solo le cuffie e l’unto sulle mani. Il casco lo ha già, di capelli fittissimi. Che invidia.

«Visto come mi sono vestito?»

Al telefono aveva dubitato: «Ma cosa c’entro io con le Ferrari, sono vetture da miliardari». Gli avevo risposto: «Non andiamo là per il lusso ma per le macchinine. Da bambino mica giocavo con una Panda». Glielo ripeto salutandolo: «Pronto per le macchinine?» Apre la portiera sorridendo, sgniiik. E cosa gli faccia il sedile di un’automobile a questi premi Andersen, lo sanno solo loro. Appena salgono, si mettono comodi come davanti a un tè nero e si parla di tutto: con Tognolini della natura e di come è bello avere figli e di diritti d’autore e di Saramago e di festival sardi e di piadine e di Giuda Iscariota. In quale ordine, fate voi. Mi ricorda l’ottava 44 de “L’altalena che dondola sola” (che Bruno ha pubblicato con Fatatrac). Pare scritta su di noi: «E allora state zitti, allarmi sciocchi / Spegnetevi, automobili fumanti / Semafori, chiudete tutti gli occhi / Fermatevi e sedetevi, passanti / Spingendosi con l’onda dei ginocchi / sulle altalene amiche vanno avanti / quei due amici a raccontare, a dire / E allora zitti. Stiamoli a sentire».

Si va. Da Modena a Maranello son cascine, prati vaporosi, gelsi, e son tutte stradine piccole, almeno quelle che la Gisella (il mio navigatore) ci consiglia di imboccare. Sono strette ed è un continuo incrociare automobili lanciatissime, vrooom, che piegano le curve al loro volere e ti spingono a canale se non ti arrendi alle fiammate di spinterogeno, puffz. Abitare a due minuti dalle officine Ferrari deve dare alla testa a questi campagnoli emiliani che viaggiano a tutta birra, limano le mezzerie, perfino un trattore cerca di sorpassarci, ma vai, dai, vai.

«La voce dei navigatori ogni tanto è scocciata, l’hai mai notato? Quando dice “Tornate indietro quando potete”, la signorina è visibilmente offesa», è Bruno a ragionare così, ma lo ascolto con un orecchio soltanto perché sono impegnato a schivare gli autoctoni. E so già che sarà una lotta tra colori, oggi, tra il rosso “Ferrari” e il bruno “Tognolini” chi vincerà?

 

I motori non hanno silenziatori, filtri, tappi. La via dell’urlo deve essere libera per moltiplicare la forza. Lo sanno tutti i guerrieri.

All’ingresso del palazzo di Enzo Ferrari sembriamo Bertoldino e Cacasenno in visita al re. Ma ci sorprende un presagio benaugurante: la tipa gentile che ci accoglie alla reception, gudmonin, si chiama Corradini. Questo è un luogo da maschi, e la prova è una gita di adolescenti: manciate di ragazze abbandonate sui divanoni grigi, smaneggiano i cellulari e se la cinguettano, clic, mentre ragazzi impallinati gironzolano tra le carenature e godono di dati mirabolanti declamati come a messa, con unità di misure che mai avevo sentito. Siamo nella piramide di Giza dell’automobilismo.

Con Bruno passeggiamo insieme, giochiamo a guardarci negli specchietti e speriamo segretamente che qualcuno ci permetta di salire su questi splendori del design italiano. Perfino i motori sono belli, con tutti quei tubi incomprensibili. Oggi li guardiamo con distacco ma Enzo Ferrari fu davvero un pioniere del pistone, della corsa, dell’avventura aziendale. Un luogo come questo ce lo invidiano nel mondo.

«I motori non hanno silenziatori, filtri, tappi. La via dell’urlo deve essere libera per moltiplicare la forza. Lo sanno tutti i guerrieri». Bruno si è fatto serio. Poi aggiunge: «Chissà se uno dei motori è femmina». Una cavalla, hiiiii, una cavalla tra le migliaia di cavalli della scuderia. Cavallini rampanti e macchinine, giocattoli vecchi ed eleganti o nuovi e riflettenti finché ho una visione, lei, la F1 di Alain Prost con cui ho giocato mesi e mesi da piccolo, rossissima in dimensioni naturali, ancora coi segni del circuito del Nürburgring sulle fiancate. M’inginocchio con la scusa di scattare una foto. Bruno non capisce il mio rapimento e mi distrae portandomi a vedere la mensa Ferrari, con un’immagine dei meccanici che mangiano. «Non è una mensa – m’incalza – è il Grande Magnifico Ristorante Aziendale», e capisco che il ragionier Fantozzi non l’avrebbe detto meglio. «Vedi? Centinaia e centinaia di omini tutti vestiti uguali, sono i Red Oompa Loompa. Forse queste macchine sono di cioccolato». Ne assaggiamo una, macché: la fabbrica delle meraviglie di Enzo Wonka nasconde segreti? Forse le gomme saranno meglio?

«Le gomme! La didascalia dice lo pneumatico, io avrei scritto il pneumatico. Ma lo pneumatico suona più illustre, antico, più nobile. Come lo capo, lo destriero. La mia Polo usata monta il pneumatico, mentre la Ferrari lo pneumatico». Seguo il ragionamento annuendo.

Ci dividiamo, Bruno scrive, si siede, osserva sempre più curioso. Ci rivediamo all’uscita. Tra i mille oggetti marchiati col cavallino (giacchine, occhiali, bavaglie, profumi, perfino l’aceto balsamico) evitiamo il lambrusco per timore di un impossibile retrogusto di Sint2000 e ordiniamo un chinotto (glu glu) accanto a una Ferrari assurdamente gialla. È tempo di confidenze. Bruno mi rivela: «Qui mi son sentito estraneo per dimensioni. Un mondo spropositato, sproporzionato a me. Soltanto una visione ristabiliva le proporzioni, o meglio le ribaltava all’infinito, in un gioco di matrioske fra piccolo e grande. Due gigantesche dita di bambino che calassero dall’alto, si posassero sui fianchi scintillanti di uno di quei cosi rossi alieni, ne saggiassero un po’ il molleggio e poi lo spingessero avanti a tutta forza, lanciandolo a fulminetto diritto sulle mattonelle, fino a fargli sbattere il muso, con un saltino indietro, sotto il comò. Grandi e bambini. Macchine e macchinine. Gioco di matrioske prezioso da ricordare: c’è sempre un piccolo più grande di ogni grande».

Bruno spegne la sigaretta prima di risalire in macchina, ce ne andiamo e uscendo dal parcheggio, direzione Modena, guardiamo insieme il sole lontano sui tetti di Maranello. Un tramonto rosso Ferrari così bello e caro e luccicante che a due fidanzati farebbe passar la voglia di baciarsi.