Il senso di Loredana

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Ieri mattina in una scuola ho incontrato una classe di bambini di otto anni per un laboratorio di scrittura. Era la quarta volta che li incontravo, e ormai c’è una certa confidenza. Il gioco di ieri? Scrivere la propria biografia esattamente al contrario, raccontando l’esatto opposto della propria vita. Un bambino da primo banco (di quelli un po’ suonati), prima mi sorride con un bellissimo apparecchio, poi comincia a leggere il suo pezzo: «Mi chiamo Loredana, le calze di nylon mi pungono». Non riuscivo a risollevarmi dal ridere. Ci ho messo un po’ ad asciugarmi le lacrime e a ricompormi, e così per tutti gli altri. Quel bambino in due righe aveva già capito tutto, il senso di una cosa senza senso: entrare nei panni di chi non sei tu.

 

Un viaggio fuori da te stesso, per ritornare in parte diversi, in parte cambiati.

Ieri sera, alla fine di un laboratorio in università, una mia studentessa mi ha chiesto: «Ma che senso ha tutto questo, prof?» Nei miei lab non accadono mai cose normali, ormai la gente se lo aspetta e io di certo non mi attendo domande di questo genere. Eppure la questione mi ha spiazzato: di certo, è un bel quesito che porta a riflessioni e a paradossi. Io la vedo così: ogni volta che fai una cosa strana, diversa, anche senza senso, ma la fai con la sincerità di chi si osserva, di chi osserva le proprie emozioni, di chi si guarda come da fuori, sostituendosi per un secondo al proprio angelo custode, allora, ecco, in quel momento stai vivendo una buona occasione per capirti da fuori, per divertirti in senso letterale, forse etimologico, per mettere alla prova la tua pazienza, il tuo disordine. Un viaggio fuori da te stesso, per ritornare in parte diversi, in parte cambiati. Il senso delle cose senza senso è tutto lì. Ma può anche darsi che questo viaggio in verità non permetta una osservazione, e il nonsenso rimanga tale. E trasformarsi in Loredana non fa più ridere. Ci sto pensando.