Pallavoliste di Terza Media crescono
Quando mi raccontano che il figlio del chirurgo diventerà chirurgo, e il figlio del meccanico inevitabilmente farà il meccanico, ci credo solo a metà. Per quanto mi riguarda, le figlie dello scrittore fanno le pallavoliste. Quando mi chiedono se mi sento più ricercatore o più autore, rispondo così: «Da quando ho tre figlie pallavoliste, sono solo un autista».
So di essere parte di una compagnia molto allargata di genitori che stanno dietro ai figli sportivi, che li accompagnano in auto a fare allenamenti o partite dall’altra parte della provincia, affrontando il buio prematuro delle sere d’inverno, il meteo avverso, il rincaro dei carburanti e, cosa peggiore fra tutte, l’ascolto forzato nel viaggio delle ultime canzoni di Lazza o di Mr. Rain. Genitori che attendono ore davanti alle palestre, che imparano a fumare pur di avere un passatempo, che fanno amicizia per sopravvivenza, genitori che si rifugiano nel bar più vicino per stare perlomeno al caldo in quelle due o tre ore, che nell’attesa consumano più aperitivi oggi di quando avevano vent’anni ma senza reggerli come allora, genitori che benedicono l’esistenza dei computer portatili, che scompigliano l’agenda perché ci sono gare a Cesenatico, in Friuli, a Tokyo. Genitori che leggono negli occhi degli altri lo stesso identico orizzonte: arrivare vivi a primavera, completare quel Tetris a livello 100 che è diventata l’agenda, star dietro a tutte le scadenze del lavoro collegandosi al wi-fi del Burger King, e crederci, crederci, e ancora crederci.
Ho la vera fortuna di essere il marito di una ex giocatrice, che oggi fa tutt’altro. I nostri due lavori ci permettono qualche margine nei tempi della giornata, e possiamo passare ore libere con le nostre ragazze, per poi riaccendere i computer di notte, quando loro beatamente dormono. Nostra figlia più grande ha giocato negli ultimi mesi nella cosiddetta “Selezione”, la rappresentativa under 14 del Comitato di Piacenza, formata da giocatrici di diversi club della provincia. La sua squadra si è qualificata seconda in regione, al Trofeo dei territori, arrivando in finale contro Ravenna. Ma le finali le perdono solo le squadre che non le giocano, lasciatemelo dire.
Se ripenso a questi mesi passati, alle tre pallavoliste di casa, non ho mai messo al primo posto le loro vittorie. A dir la verità, non ho mai messo al primo posto nemmeno il loro apprendimento della tecnica. Ciò che mi importava, e mi importa, sono le relazioni che si sarebbero create, le nuove compagnie e forse nuove, vere amicizie.
Era l’unica cosa che in quelle palestre potevo capire, perché non ho mai giocato a pallavolo e soprattutto non ci ho mai capito nulla. Quando se ne parla a cena e mi dicono “posto 5”, io devo ancora partire dal posto 1 e contare. Ma mi sono fidato di mia moglie, e che fosse lo sport giusto: per quattro volte a settimana, per tutto l’anno, abbiamo accompagnato le nostre figlie dalla campagna alla città.
È stato un tempo speso bene, ne sono convinto. Ma la Selezione ha una bellezza che va raccontata, per il tipo di legami che si sono creati, per la sintonia, per l’affetto che nostra figlia ha ricevuto e che ha potuto restituire. Per il senso dello sport che lì si respira. Lo si capiva dopo i primi allenamenti, quando le stesse ragazze si affrontavano a turno nel campionato provinciale ma si guardavano da un campo all’altro con occhi diversi, con intesa. Lo si capisce dai gesti. Mia figlia sta provando a giocare in una nuova società, e al primo allenamento una sua amica della Selezione le ha portato una maglietta della nuova squadra, così che si allenasse con lo stesso colore delle altre. Agli occhi di noi adulti annoiati potrebbe sembrare un gesto qualunque, ma l’adolescenza è costruita tutta su gesti microscopici e insieme decisivi.
Accedere alla Selezione era possibile solo grazie alla maturazione tecnica che un po’ per volta un’atleta raggiunge, e in questo comprendo che anche allenarsi così tanto non è stato secondario. E qui provo gratitudine per Gianluca Rossetti (primo selezionatore), Luca Feroldi (secondo selezionatore), Michela Ziliani (dirigente accompagnatore) e Nicholas Rusconi (responsabile del centro di qualificazione territoriale). La Selezione è stata per nostra figlia l’esperienza migliore di tutte non perché è un luogo dove le atlete vengono scremate, ma dove lo sport esiste solo per il gusto di esserci, “perché è lì” (come Mallory spiegava le motivazioni che lo spingevano a scalare l’Everest), un po’ come alle Olimpiadi, e dove le dinamiche dei campionati e delle società, e degli sponsor e dei bei proclami, lasciano posto a qualcosa di più essenziale e magnetico: l’idea di scendere in campo per quello che sei, per come sei, per saltare, murare, ricevere, colpire la palla fino a farti male, stringere i denti solamente per fare quello che sai, senza null’altro in testa se non di farlo bene. Per te, e per le nuove amiche intorno a te.
Giocare e crescere in fondo si somigliano così tanto. Per le ragazze della Selezione, credo che il volley abbia rappresentato una liberazione, una gioia, una responsabilità. E la consapevolezza di essere state volute, e di avere un posto nel mondo. O perlomeno in posto 3, o 4, o dove accidenti devono stare in campo. Chissà. E poi è qualcosa di leggero come tutte le esperienze a tempo: dura quelle settimane e poi via, in un soffio sei già troppo grande per farne parte anche l’anno successivo, e toccherà a qualcun altro indossare quella tuta di cui tu adesso vai tanto orgogliosa.
Lontana dagli allenamenti, le mancano le compagne. Nostra figlia è cresciuta. L’hanno fatta crescere le vittorie, certamente. L’hanno fatta crescere la tecnica e la fatica. Ma più di tutto l’ha fatta crescere la sensazione di aver trovato un luogo dove stare bene. E questo è quanto auguriamo a tutti, soprattutto a chi vogliamo bene.
Se l’età bella delle scuole medie, che tutti noi un po’ rimpiangiamo, doveva simbolicamente terminare così, credo sia terminata nel modo migliore. Queste ragazze hanno trovato un po’ di loro stesse, lì, in quei 9 metri per 9 di un campo da volley. Una superficie piccola, che potrebbe essere quella di una casa. E forse, in fondo, la è.