«Tu da quanto tempo sei ebraistico?»
Me lo ha chiesto una ragazza di terza media. Così, a bruciapelo. Si è accorta della parola stramba solo all’ultimo momento e ha sorriso. Io anche. Ho provato a rispondere.
Sono ebraistico da quando ho conosciuto un amico ebreo a dodici anni. Sono ebraistico da quando mi sono iscritto a Lingue Orientali a Venezia. O forse da quando ho cominciato a pronunciare le prime parole in ebraico senza guardare il quadernone con gli appunti.
Sono ebraistico ogni volta che salgo su un palco con gli amici musicisti ebrei. Ed ebraistico lo sono anche ogni volta che racconto a qualcuno qualcosa che ancora non sapeva sulla cultura e sulla storia ebraica.
Mi sento ebraistico quando in una comunità ebraica, come quella degli amici veneziani, mi sento accolto pur sentendomi sempre ospite, pur entrando sempre nella storia degli altri con rispetto.
Ma soprattutto mi sento tanto, tanto ebraistico da quando lavoro nel ghetto di Terezin. E da quando c’è questa foto nella mia storia di ebraistico. È una bambina del ghetto, e la fotografia l’ha scattata un nazista, non un ebreo, non un reporter di passaggio. L’ha scattata il nazista per mostrarci gli ebrei con gli occhi del nazista (disgustosi, dannosi), ma noi la guardiamo coi nostri occhi e ci vediamo solo una bambina dal destino buio ma ancora, ancora, per un istante serena.
È in nome di quell’istante che sono, e sarò ancora per un bel po’, ebraistico.