Non è solo una parola
Italiani mafiosi. E non sanno lavorare. Rumeni ladri e violenti. Musulmani pericolosi. Cinesi truffatori. E ce l’hanno piccolino. Centroafricani meglio per le misure ma sono spacciatori. Magrebini fannulloni. Tedeschi crucchi, brasiliani sfaticati e festaioli, statunitensi ciccioni guerrafondai…
Ce la ridiamo in una classe di scuola a scherzare con le parole del razzismo in giro per il globo. È un gioco, e mi serve per arrivare a una conclusione seria così come tanti giochi permettono: raccontare che per i fascisti e i nazisti le parole della normalità erano diventate insulti, tanto che “ebreo” ai loro occhi non era quel che leggiamo noi.
Ce la ridiamo tutti tranne una ragazza albanese, che mi guarda e le vengono gli occhi lucidi quando alle sillabe di “al-ba-ne-se” associamo tutto il resto.
«Sono nata in Italia. Ho genitori albanesi. Sono stufa che albanese non sia solo una parola», mi sussurra. I suoi occhi dimostrano una lunga storia. Chissà quante volte è stata presa di mira.
Per noi adulti è forse più semplice buttarci ogni cosa dietro le spalle, resistere al mondo e a noi stessi. Ma una ragazza che sta crescendo soffre, e soffre in modo indicibile, a veder sommato il razzismo ai problemi che la sua età le impone. Per noi italiani a cui succede di lavorare all’estero la sopravvivenza ai luoghi comuni è una piccola battaglia quotidiana. Ma per una ragazza (Italia, 2019) sopravvivere al razzismo è una guerra quotidiana contro le parole.
Le parole sono cose. Le parole riescono a far male più dei colpi. E a guarire più lentamente, di sicuro. La fragilità dell’età viene messa alla prova e tutto crolla, diventa angoscia. Diventa lacrime trattenute a stento davanti a uno scrittore che dovrà assumersi qualche responsabilità. La ragazza s’aggrappa a me con gli occhi e io per un istante non so a chi aggrapparmi.
Così cambiamo tono prima del previsto, e ne parliamo. E dentro di me so che questi piccoli momenti sono preziosi e decisivi.
Penso a chi usa le parole con violenza tutti i giorni e tutto il giorno. Penso a quali spregevoli vigliacchi si nascondano dietro a “ruspa”, “zingari”, “pacchia”, “yacht”. Parole usate con superficialità irresponsabile, tanto più se a pronunciarle sono un ministro, un giornalista, una celebrità. Razzisti in nome del conto in banca, i peggiori. E poi il loro seguito, lo strascico di commentatori web, filosofi da bar, guardoni della sofferenza altrui.
Eccolo, il risultato: l’odio che si accende e cresce qua e là, e colpisce a chilometri e chilometri di distanza da dove certe parole sono state pronunciate. Eccolo, il risultato: il dolore di un’adolescente e un mondo peggiore. Contenti, ora?
Non posso spiegare a questa giovane (italiana, albanese, europea, che importanza ha?) che quel che sente sulle sue spalle è un dolore che nessuna parola potrà lenire. Non posso neanche spiegare agli adulti del web che il pianto di un’adolescente non è “un pianto e basta e poi passerà e prima o poi ci siamo capitati dentro tutti”.
Posso solo dirle che noi ci siamo, che non avrà molta importanza dove accadrà, ma ci saremo ogni volta che questo dolore si ripresenterà. E che un giorno toccherà a lei prendere il nostro posto, e anzi le sta già toccando.
Suona la campanella. Chiudo la porta della classe guardandola un’ultima volta e guardando i suoi compagni. Ogni generazione ha la sua battaglia, e noi abbiamo anche questa. Fatta di promesse e di presenza, di futuro. Di persone che s’aggrappano a noi. E noi smarriti a cercare un appiglio, una parola, per arrivare anche oggi fino a domani.