Il fiore del partigiano


(Il mio discorso per la Festa della Liberazione – San Mauro Pascoli, 25 aprile 2019)

Quale motivo ci ha portati qui? Quale decisione ci ha spinti a riunirci in questa piazza? E proprio oggi, per di più. Il sole di primavera che prima dell’estate sembra aver compreso come scaldarci senza farci male, i nostri passi che escono di casa al mattino presto, i volti delle persone… ci accompagnano in questo momento. C’è chi è arrivato a piedi, chi in bicicletta. Io in treno. Ma vedo anche passeggini. E un paio di pattini.

Siamo qui perché ce lo hanno insegnato, che così si fa per essere italiani. Siamo qui per orgoglio. O perché proviamo affetto per la storia. Siamo qui perché lo facevano i nostri genitori, o per ricordare persone che sono state uccise nella guerra di Liberazione. Per convincerci che ricordare ci farà bene, ci farà rincasare avvolti dalla sensazione d’aver speso degnamente il nostro tempo. Per aggrappare le paure di oggi al coraggio di ieri. Per dire ancora una volta che il tricolore ci unisce. Per sentire che l’Italia è stata questa, e anche solo per un istante non prestare orecchio e tempo a quel lungo sfregio osceno e violento che fu il fascismo, al dolore e all’odio che indusse nei cuori, alla morte che stese sul nostro suolo e oltre i vecchi confini, all’omicidio di una intera generazione. Per un istante soltanto non sentire quel rumore di fondo fascista che non si è mai spento.

Non conosco i motivi vostri, e avrei il desiderio di curiosarvi nella mente e nei cuori. Conosco però i miei motivi, e voglio raccontarveli perché sono brevissimi. Sono qui perché da bambino cantavo “Bella ciao” in automobile.

Sono stato bambino negli anni Ottanta. Li ricordate quei viaggi delle vacanze negli anni Ottanta? Avevamo un maggiolino verde scuro, io e mio fratello sul sedile di dietro non avevamo le sicurezze di oggi, seggiolini, poggiatesta, cinture, passatempi elettronici, ma un’unica certezza: perché il viaggio durasse meno si poteva dormire oppure cantare. Così cantavamo, e cantavamo anche “Bella ciao”.

A pensarci bene, quella canzone per me rappresentava già una validissima alternativa al sonno, ed è forse il significato migliore che posso attribuirle. La cantavamo così, mescolata ad altre canzoni, quelle di montagna, quelle dei cartoni animati, quelle dei cantautori che piacevano ai miei genitori. La mia non era una famiglia di comunisti, e quel canto faceva parte della mia infanzia come ha fatto parte dell’infanzia di tanti. Era un inno nazionale. Nel ricordo lo trovo indistinguibile dal resto, e ne provo affetto e nostalgia.

C’è un punto però che mi ha sempre interrogato e oggi metto davanti a voi quella domanda che mi porto dentro da tempo. La canzone non parte in modo molto allegro, attacca in una tonalità minore già piena di presagi grigi. Ma diventa drammatica, credo, nella penultima strofa, quando dice “se io muoio da partigiano”. Alle orecchie di noi bambini, abituati alle certezze e alle sicurezze dell’infanzia (ossia che chi è vivo è vivo e sta bene e chi è morto è in un aldilà felice) quelle parole mettevano inquietudine e paura. Si può dunque essere vivi ma pensare di poter morire. Si può essere vivi ma sapere che la tua vita è fragile e preziosa, te la devi tenere stretta, oppure donarla a un ideale. Alle orecchie di un bambino non è retorica. È angoscia.

I partigiani ai miei occhi erano quelli che avevano affrontato questa inquietudine. Il loro coraggio non stava nel fucile (il moschetto, lo si chiamava a quei tempi) e nelle azioni di guerra. Quelle per me erano avventure, e nelle avventure i buoni vincono sempre senza rischiare mai. Il valore dei partigiani risiedeva nell’aver mosso un passo decisivo contro il proprio sonno, le proprie intime paure. Il fascismo era un orrore peggiore della paura, della propria ansia, del proprio dolore. E andava combattuto anche per quel motivo, per disfarsi della catena che rendeva un uomo e una donna schiavi anzitutto di loro stessi, del loro lato animale e sopraffattore, forse più recondito, del bisogno di approfittarsene e di sopravvivere, più che di vivere.

Non è però quel punto a interrogarmi, ma è una frase che viene poco dopo e ne diviene conseguenza: “mi seppellirai […] sotto l’ombra di un bel fior”. Da bambino pensavo che quel fiore, già spuntato e cresciuto tanto da fare ombra, un piccola ombra immagino, dovesse essere piantato da qualcuno. Mi seppellirai in montagna e metterai un bel fiore sopra di me. Lo pianterai tu. O glielo porterai, come si fa nei cimiteri.

Oggi la penso diversamente. Nella canzone non si parla di piantare fiori, e mettere un vaso di fiori in un prato di montagna mi pare poco sensato. No. Quel fiore c’è già da prima. Il partigiano, o la partigiana, va messo sotto un fiore che è già spuntato, è cresciuto mentre lui combatteva, mentre lei portava armi, mentre lui preparava imboscate, mentre lei rischiava la vita per una riga di messaggio. Il fiore è cresciuto prima, e là sotto il partigiano riposerà. Sotto quella storia già venuta al mondo e diventata colore e profumo.

Forse è un dettaglio irrilevante, una roba da pignolini. Forse è una cantonata. Ma quel fiore, il fiore del partigiano, per me ha un significato più ampio.

Quando comincia la guerra di liberazione? Comincia ufficialmente con l’armistizio, col 1943. Ma quella guerra, inizialmente combattuta da poche persone in un embrione di organizzazione che sarebbe diventata imponente solo mesi dopo, era stata preparata prima. La consapevolezza che il fascismo stesse portando l’Italia alla morte venne da subito, e fu il primo nemico che il regime cercò di combattere. Le uccisioni degli avversari politici e dei giornalisti, la condanna di qualsiasi pensiero libero, sono parte di un unico piano: togliere consapevolezza alle persone. Trasformare la gente in folla, le persone in truppe, gli individui in pedine.

Nell’arco di vent’anni il regime fascista ottenne un grande risultato: l’apparente annullamento di qualsiasi forma di opposizione sul suolo nazionale, politica e morale. Una intera nazione divenne fascista. Ma chi non lo divenne, lo fece di nascosto, in un incessante lavoro di convincimento personale, in piccoli gruppi, nella segretezza.

C’era chi aveva ragioni politiche: i socialisti, i comunisti, i liberali. C’era chi era spinto dalla ricerca di forme alternative di convivenza, come gli anarchici. C’era chi aveva capito da subito che la vita guidata dal Vangelo non era conciliabile con il fascismo, come i cattolici. C’era chi non si era piegato all’idea che i valori del proprio mestiere coincidessero con quelli fascisti, come i giornalisti, o i militari.
Chi erano queste persone? Erano italiani come gli altri, provenivano da gruppi di aggregazione lontanissimi per ideali e senso. Avevano mentalità spesso opposte. Facevano mestieri molto diversi. Così come diverso era il loro grado di istruzione, il loro stato sociale, il loro domicilio.
Eppure, in modi diversi e per tutto il perdurare del ventennio fascista, tante persone coltivarono dentro di sé la consapevolezza che il fascismo fosse il male, che fosse una vergogna, che non dovesse trovare appoggio. Lo fecero in modi diversi, alcuni più intimamente, nelle famiglie. Altri più esplicitamente, organizzandosi, nelle stanze di quel che rimaneva dei gruppi politici, nelle parrocchie, nelle caserme.
Gli anni bui del fascismo in Italia furono da subito anche anni di antifascismo, di parole scambiate, di incontri più o meno clandestini, macchinazioni, cospirazioni, sotterfugi. Di cultura politica ed etica. In una parola: di Resistenza.

Venti anni di fascismo avevano preceduto l’8 settembre 1943. Significa che per puri motivi anagrafici i ragazzi che combattevano i fascisti e i nazisti in Italia avevano vissuto l’intera loro vita sotto un regime illiberale e sanguinario, in un clima di odio e di violenza. Una intera generazione italiana non aveva respirato aria buona per due decenni.
La Resistenza non aveva dovuto organizzare solo armi e approvvigionamenti e covi e contatti con gli Alleati. Era stata prima di tutto quanto una forma diffusa di cultura della libertà, che ogni resistente a modo suo aveva coltivato. L’avevano coltivata i liberali e i cattolici, i socialisti e i comunisti. Con idee contrapposte ma con l’unico fine: liberarsi.

La resistenza armata esplosa dopo l’8 settembre 1943 è frutto di una consapevolezza venuta prima, senza la quale nulla sarebbe nato e sarebbe stato possibile. Anche l’immediato dopoguerra, la nascita di una democrazia compiuta come oggi la conosciamo, è frutto di quel desiderio e di quella consapevolezza, non certo nati e cresciuti nei venti mesi di guerra di liberazione, ma nei venti anni precedenti. Fu una consapevolezza, ricordiamolo, venuta tanto dal basso. Che oggi è una parola a cui troppi si aggrappano. E fu una consapevolezza che fu difesa e diffusa da leader diversissimi. Anarchici e carabinieri insieme. Socialisti e cattolici. Se il gioco dei contrasti ha un senso, la Resistenza in Italia è stata una grande unione di contrasti. Forse una nazione, nel senso moderno del termine, non è altro che la convivenza pacifica di contrasti.

Di tanti fra quelli che combatterono, conosciamo il momento della morte e la data delle loro nascite. Forse vorremmo vedere quanto contennero questi due limiti, le loro vite come nel trailer di un film, perlomeno, a mostrarci quanto di buono anche a loro capitò prima di venire uccisi in questa pianura. Vorremmo vederli bambini, quando hanno iniziato a camminare senza sapere che quelle gambette sarebbero un giorno servite a correre, svelti e bassi nell’erba di questi prati, tra le pallottole. Vorremmo vederli giocare nelle strade davanti a casa, ancora lontani dal pensare che quel legno trovato in terra sarebbe diventato un vero fucile. Vorremmo vederli così come li vedevano i loro stessi occhi, quegli occhi che quel giorno del ‘44 bucavano la nebbia per avvisare dell’arrivo dei convogli tedeschi, ma che prima sono stati aperti su mamme e papà, fratelli e sorelle, compagni di giochi e di studi, colleghi, commilitoni, fidanzate innamorate. Non sappiamo come si vedevano, e cosa vedevano nel loro futuro: si vedevano manovali, mariti, operai, studenti, genitori? Non sappiamo bene quando decisero, ma vorremmo vederlo quel momento, quell’istante nel quale ciascuno di loro ha smesso di vedersi come prima e ha cominciato a vedersi partigiano.

Le loro date di nascita ci spingono a calcoli commoventi: è l’aritmetica del dolore applicata a chi non c’è più. Se sei nato nel ’26 e ti hanno ucciso nel ’44 avevi 18 anni il giorno in cui moristi. I nazisti e i repubblichini non li vedevano manovali, operai, studenti, chimici, carabinieri e nemmeno li chiamavano partigiani, ma sbandati, banditi. E ribelli, che oggi suona come un complimento pieno di tristi presagi.

È la guerra. Un luogo della storia dove le parole non valgono più nulla ma contano comunque più delle persone. Un tempo che dimentica cosa sei stato prima per farti ricordare solamente per il tuo ultimo giorno, cancella la tua vita per illuminare solo la tua morte. Un tempo che ci induce a dividere l’umanità tra buoni e malvagi, santi e peccatori, vittime e carnefici. Distogliendoci dal pensiero più duro e più esigente, quel pensiero che non ci spinge più a domandarci se un uomo fu buono o malvagio, ma se messo alle strette dalla storia decise di stare dalla parte delle vittime e non dei carnefici.

Crederli dei martiri è in fondo un modo un po’ codardo per tenerli lontani, idealizzarli al punto da renderli irraggiungibili. E levare a noi, oggi, qualsiasi responsabilità sulla realtà che viviamo, sul tempo presente. Ecco chi erano: erano dei giovani. Ecco cosa dobbiamo domandarci di fronte a loro: dove ero io a 18 anni anni? Cosa pensavo a 21? Cosa facevo a 24? Per cosa mi batteva il cuore a 26? E la risposta per questi sette ragazzi è una soltanto: ero qui, con un fucile in mano, a sparare a tanti, troppi invasori.

Eccolo, il fiore. Era lì da prima. È stato coltivato, accudito, prima. Gli è stata data l’acqua della cultura, del desiderio di pace, della tolleranza nei tempi bui. Prima. Quando per il partigiano è arrivata l’ora di riposarsi, il fiore ha ricordato a tutti non solo il suo valore, ma il tempo dedicato alle idee, alla sofferenza per la libertà, al dolore attraverso il quale passare per essere uomini liberei, donne libere, una patria libera.

Ma un fiore è leggero e colorato, e la memoria ha bisogno anche di questo, di leggerezza e di colore. La cerimonia di oggi, e l’intera giornata del 25 di aprile, non serve solo a ricordare i partigiani che combatterono, ma a fare memoria di tutti coloro che rimasero loro stessi, non tradirono la propria umanità, la propria fede. A fare memoria di tutti coloro che non furono fascisti quando tutti erano fascisti, non furono razzisti quando tutti erano razzisti, non si allearono coi nazisti per fame di potere, vigliaccheria e tornaconto. Furono italiani veri, patrioti veri. In una parola? Antifascisti.

Chi non partecipa al 25 aprile non fa un dispetto alla cerimonia. Lo fa al Paese. E a se stesso. Per mancanza di intelligenza, coraggio e dedizione allo studio non ha capito cosa significhi per la nazione avere un giorno dove celebrare una libertà piena di consapevolezza, la libertà che permette di ritrovarsi tra chi vuole coltivare generazioni, vivere nella cultura, ragionare sul futuro. Sottovalutare il 25 aprile nella convinzione di sminuire una parte politica significa averlo equivocato. Il 25 aprile è di tutti, perché è nato di tutti. In chi si riconosce in un valore che in fondo permette tutti gli altri. Votiamo tutti lo stesso partito, qui, oggi? Spero proprio di no. La politica in senso stretto non è 25 aprile. Oggi è la festa della gente.

Ci sono giovani, qua. Anche bambini. Mi piace che ci siano. Mi ricordano quando anche io, bambino, sgambettavo dietro il corteo. C’era la banda anche nel mio paese. Ma occorre un musicista vivente per far suonare canzoni cantate un tempo da chi non c’è più.

Nell’album di famiglia del fascismo ci sono le foto di centinaia di migliaia di morti, c’è il sangue dell’Europa, c’è l’omicidio e la violenza. C’è il razzismo, l’antisemitismo. C’è la corruzione e l’idolatria, la bestemmia e la menzogna. Oggi la guerra sembra non esistere. In tante case fa la sua comparsa solo quando la tavola è apparecchiata, è una guerra lontana, a cui non permettiamo di toccarci il cuore. La missione del nostro tempo è il divertimento. E la consapevolezza si concilia male col consumo.

Quando fai memoria, la memoria sei tu. Oggi noi siamo la memoria di quegli anni e di quel giorno, quando la guerra finì.

Come chi coltiva un campo odora alla fine di quei prati, come chi accende il caminetto finisce per sapere di legna e fiamme calde e carbone, tu che fai memoria, è inevitabile, hai l’odore di quel passato, lo porterai addosso anche senza volerlo. Sai di qualcosa ancor prima di sapere qualcosa. È l’odore del passato, buono o cattivo che sia. La memoria non si vede ma ci passa accanto ogni giorno, la attraversi a piedi.

Ognuno dei fiori di oggi cresce su quanto accadde e ci dice che nessuna storia merita di essere dimenticata. Nessuna.

Desidero dirvi grazie. Grazie a voi che siete qui stamattina. Grazie alle autorità civili e militari: di solito le si ringrazia per protocollo, per bon ton. Credo invece che se un amministratore dedica tempo a commemorare quei giorni e quelle scelte, e dimostra di comprenderne la portata, vada ringraziato con sincerità. Grazie agli scout.

Tante persone condividono questa volontà, la scelta bella di sentirsi umani con chiunque, ovunque. Di stare in piedi contro le intemperie. È una scelta di resistenza, e di ottimismo, è una scelta intima e insieme di patria. E l’idea che la storia sconosciuta di un altro possa entrare nella mia, e la mia nella sua. Perché nessuno di noi venga dimenticato.

Quando fai memoria, la memoria sei tu. E la tomba dei partigiani non è in questi prati, nei cippi, nelle targhe commemorative. È nel fiore della nostra consapevolezza.

Ed è qui, nei nostri cuori.