Il senso di tutto questo ricordare

Stamattina abbiamo fondato l’Institut Terezínských skladatelů. Che in inglese, come vi dicevo, suona forse più chiaro: Terezín Composers Institute. Lo abbiamo fatto a Terezín, là dove avrà sede, e alla cerimonia hanno fatto da testimoni i rappresentanti delle ambasciate di Germania, Austria e Israele, nonché la sindaca di Terezín. Come si dice? Un “parterre delle grandi occasioni” che ci ha onorato.

Cosa significa fondare un istituto dedicato ai compositori imprigionati in unghetto nazista e poi uccisi nello sterminio perché ebrei? Significa molte cose: sapere, studiare testi, confrontare versioni, indagare, collaborare tra ricercatori molto diversi, buttarsi, verificare, ricostruire, divulgare, organizzare concerti.
Per me significa (anche) fare due passi all’alba a Terezín e sentire l’aria fredda diventare tiepida, poco per volta. Significa discutere con Jiri, e far ridere sua figlia, e divertirmi a parlare in italiano col coreografo Zdeněk, e farmi raccontare di quando faceva le barricate contro i tank russi nel ’68, significa far colazione con Gaby e stanare documenti falsi con quel vichingo di Tomas, che il Signore mi scampi dal litigare mai con lui. Significa parlare di orchestre con Vladimir e cantare il tema di Má vlast di Smetana con Yuval sul sedile di un’auto che ci riporta a Praga, mentre l’autista ci prende forse per matti, significa dir grazie a Petra, che senza di lei come faremmo.

Ma dentro di me so che tutti i verbi, qualsiasi essi siano, che potremo accendere nel nostro Istituto avranno l’unico grande valore di dirci, ancora oggi, che nessuna storia merita di essere dimenticata. Nessuna. Perché se passi il tempo a ricostruire quel che di buono fecero persone dimenticate e odiate da tutti settant’anni fa, arrivi a pensare che le persone dimenticate e odiate da qualcuno settanta minuti fa hanno ancora qualcosa da dirti.

Ogni persona che noi riceviamo per scelta o per caso nella nostra esistenza ha una storia dentro. E quella storia non ci farà male, ma anzi ci renderà migliori. Le persone che sono messe sulla nostra strada dal caso o dalle scelte di altri non attendono il nostro odio o la nostra indifferenza. Non sono qui per seguire la sorte degli ebrei settant’anni fa, la lezione dovremmo averla imparata. Attendono che ci sia qualcuno ad ascoltare le loro storie, a dar loro voce, anche solo per un po’, e a non chiudere il futuro. Chi lo fa, chi chiude, non è solo uno stupido o un razzista: proprio non sa cosa si perde.

Lavorare sulle storie del passato ti infonde una specie di ottimismo. L’idea che tante persone condividono questa volontà, la scelta bella di sentirsi umani con chiunque, ovunque. E l’idea che la storia di un altro possa entrare nella mia, e la mia nella sua, perché nessuno di noi venga mai dimenticato.