La città dietro l’angolo

Tra Natale e capodanno si è spenta una giovane donna di etnia sinti, in una roulotte a Campremoldo Sotto. Se non fosse che il luogo dove Elisabetta ha chiuso gli occhi per l’ultima volta somiglia alla grotta di Betlemme ricostruita nei cento presepi delle nostre chiese, forse la notizia non sarebbe stata ospitata dai giornali. Il dolore non è mai cronaca: lo diventa solo quando si distende sul nostro immaginario, che al solo nominare la parola “nomadi” si riempie di visioni di degrado e povertà. Se una donna di quarant’anni si spegne, è solo dolore e pensieri sull’età e su quanto la vita non potrà più donarle. Se una donna sinta di quarant’anni si spegne perché malata, qualcuno penserà che la sanità e la luce gliel’abbiamo già pagate, e ci toccherà saldare anche il funerale.

Nel ’99 sono stato l’ultimo obiettore Caritas in servizio tra i sinti. Avevo ventiquattro anni e ai tempi c’era un cosiddetto campo nomadi in fondo a via Boselli, dove oggi c’è un’anonima rotonda. Il primo giorno che vi entrai, capii cosa provò Colombo arrivando a Guanahani: la certezza di non aver scoperto un bel nulla e di far parte solamente di un panorama più grande. Il centro educativo era alle Mose, nei locali della canonica concessi dal parroco della Mortizza.

«Cosa è successo in città, ce lo racconti?» era la prima cosa che mi chiedevano ogni giorno i sinti di via Boselli. Ma il centro della città era a due chilometri, appena voltato l’angolo. La città era lì, erano loro la città: venivo dalla provincia e cosa volete che sapessi? Sempre che abbia capito qualcosa dei sinti, ho compreso che spesso il sinto vive appena girato l’angolo. Che sia un angolo geometrico o mentale non importa: lui e lei sono lì, il loro equilibrio è diverso dal tuo e devi deviare per incontrarli. Sei spinto a sbilanciarti tu stesso, con tutta l’ebrezza e il timore che ne conseguono. In fondo per tutti la città è dietro un angolo.

Non vi voglio dire se in quei giorni e in quei luoghi c’era anche Elisabetta. Di persone col suo cognome ce n’erano, sì: alcune portavano storie strampalate, qualcuna piena di coraggio, un lavoro in pasticceria coi clienti che ti guardano storto, le cicatrici di tre coltellate nella schiena, una patente da prendere, mi aiuti a studiare i segnali stradali? E i fiori rubati al cimitero per essere donati a una ragazza sinta davvero carina. Sono più utili ai vivi, no? E come dargli torto? Vere, false… che differenza fa? Sono le storie che le persone si portano dentro, e sono quelle che si spengono quando uno non c’è più.

Non so se la nostra fu amicizia. Temo di no. Fu fiducia e curiosità reciproca: cucinammo insieme in quei giorni strampalati di una vacanza a Pecorara. Due settimane a luglio via da tutto, una dozzina di sinti e tre “operatori”, due stanze in collina e una pentola da condividere. E cantavamo coi piatti da lavare. Oggi chissà se qualcuno prenderà un fiore ai vivi per portarlo a lei, ma non so se in quei giorni e in quei luoghi c’era anche Elisabetta, a voi tanto non importa. Se c’era, era quella che quando la moca cominciava a borbottare apriva il coperchio e aggiungeva al volo un goccio d’acqua, che scompariva subito abbracciato dal caffè. «Non lo sai? Viene più buono, così». E lo diceva sorridendo.

(un pezzo per il mensile La fabbrica dei grilli)