Giustizia poi, giustizia prima

Sul dopo pensavamo di essere pronti. Si fanno indagini. Spesso il colpevole viene preso, soprattutto se è un pesce piccolo. Il colpevole finisce in galera. Di fronte alla violenza di oggi, però, mi pare che i colpevoli pensino ben poco al dopo. Non lo pensano i maschi che uccidono la moglie, come credessero di farla franca, di essere in fondo capiti da una società che è dalla loro parte. Non pensa al dopo l’uomo che ha tanti problemi psichiatrici quante armi in casa, e in pugno. Al dopo pensa ancora meno il kamikaze, per sua natura: un dopo, perlomeno terreno, per lui non ci sarà. Il sistema della giustizia di fronte alla violenza non è per nulla perfetto. Il dopo, per quanto funzioni la cosiddetta “macchina della giustizia” non restituirà le vittime, non sanerà le ferite gravi, non lenirà il dolore. Vedere un violento che passerà i successivi trent’anni in carcere a cosa serve? Ad allontanare un violento dalle strade. Ripeto: uno. Risolvere la violenza in questo modo è un falso pragmatismo: è una tattica da politico xenofobo, che non vuole risolvere problemi perché sono proprio i problemi a creargli consenso (e lavoro).

Sul durante c’è poco da fare. Si interviene militarmente. Chi compie un certo tipo di violenza, e quella terroristica ne è l’esempio perfetto, molto difficilmente riesce a fabbricare ragionamenti mentre la compie. E ancora meno a dialogare. Perché, sempre, accecato da intenzioni invasate e imbottito di alcol o droga.

Rimane il prima. A noi tutti rimane solo il prima. Possiamo pensare che ci sia una giustizia prima? Io credo di sì, e credo sia una ottima forma di resistenza al terrorismo. Giustizia prima significa lavorare perché il violento non si esprima da violento. Creare reti virtuose. Coinvolgere e responsabilizzare le comunità musulmane. Il dopo trasformerà il violento in detenuto, o spesso in defunto: su di lui occorre ovviamente lavorare prima. Giustizia prima significa creare una condizione civile che faccia sentire le persone a casa anche se la loro casa è lontana. Significa creare assistenza senza indifferenza.

È un pensiero umanitario e compassionevole se lo si pensa rivolto al violento: anche lui, come essere umano, necessita di cure. Di qualcuno che lo salvi. Ma mettiamo pure che questo pensiero a molti non venga: conviene lavorare sul violento, e sulla violenza, anche per puro egoismo, perché sarà questo a salvarci la pelle.

È stupido pensare che il terrorismo lo batteranno la polizia e l’aeronautica. Quelli sono perfetti per il durante. A volte vanno bene anche per il dopo. Ma sono una pezza brutta a un vestito che vogliamo mantenere bello. Il terrorismo lo batteremo solo lavorando sul prima. Lo batteranno educatori e insegnanti, bibliotecari e psicologi. Per certi versi lo stanno già battendo. Lavorare sulla mente, sulle proprie emozioni, sul rispetto delle identità, sull’identità religiosa in una società laica… È questo il gran lavoro che si dovrà continuare a fare, anche di più. Una nazione saggia, oggi, punta tutto su quello. A costo di vendere un caccia militare (quanta formazione per gli insegnanti con quei soldi!), di costruire una nave militare in meno (quanti nidi d’infanzia non chiuderebbero).

Se un politico non valorizza la scuola, sta mettendo a rischio la tua vita. Non subito, magari, ma tra qualche anno sì. Se un politico chiude una scuola, sta attentando alla sicurezza nazionale.

Il presente ci chiede uno sforzo educativo. Nelle scelte quotidiane. Ma anche in qualcosa di speciale: la voglia di credere ancora nel valore della nonviolenza, con una speranza piena di pragmatismo. In questi tempi di luce e di buio, forse sarà proprio questo a salvarci.