Seconda notte coi volontari

Festivaletteratura 10settembre31

Quelli di Mestre… Ritorno a dormire per la seconda volta con i volontari, nella nostra casa palestra. Passeggio per le strade di Mantova al termine di una giornata di festival, quando la gente se n’è già andata, i luoghi degli incontri tacciono e il blu degli striscioni e dei totem attende di essere illuminato dalla luce dell’alba. Nel nero della notte giro l’ultimo angolo e mi trovo di fronte alla vetrata della palestra. Spenta. Speravo che i volontari, miei compagni notturni per alcuni giorni, fossero tutti ancora alzati. E invece no: buio. Faccio piano, entro piano, piano accendo la luce del telefono e mi faccio strada. Recupero quel che serve per la doccia e penso che i ragazzi si saranno già tutti lavati e via, a letto. La doccia è calda, e fa dimenticare le pareti scrostate e la porta che pare grattata da un orso e il piatto sotto i miei piedi che si intasa in pochi istanti. Ritorno al mio letto e noto solo allora che non c’è. Ricontrollo. Non c’è, scomparso. Al suo posto i volontari hanno montato una mezza trappola fatta a letto, dove sprofonderei come un Titanic se solo mi sedessi con noncuranza.

Di quel che ci siamo detti, ricordo solo con il cuore e non con le orecchie.

Prendo a girare per la palestra con la mia lucina e noto con orrore che i letti sono tutti vuoti. Nessuno sotto le coperte, nei sacchi a pelo, e nessuno sotto, nascosto, nulla. Un brivido angosciante mi prende e accompagna il primo pensiero che nasce in me: il finto letto è solo una parte dello scherzo, i volontari sono nascosti e urleranno terrorizzandomi non appena mollerò l’attenzione. Mi aggiro con la pila come nei migliori lungometraggi con gli zombie e finalmente vedo un letto abitato: è di una ragazza di Ferrara, sta mandando messaggi romantici (a giudicare dai suoi occhi) e acconsente con gentilezza quando le chiedo di aiutarmi a trovare il mio letto. Lo recuperiamo nascosto in un angolo, e lo riportiamo al suo posto. Solo allora mi accorgo del biglietto di minacce nascosto sotto il cuscino ed ora anche voi lettori comprendete il motivo dell’incipit strampalato di questo resoconto.

Festivaletteratura 10settembre30

Mi corico in terra, non ho voglia di montare un nuovo letto, ed eccomi in una dimensione comoda, finalmente. Il pavimento, con il materassino nero di gomma piuma, ha una sua compattezza benefica per la mia schiena.

È alle due di notte che avviene qualcosa di inizialmente terrificante. I volontari rientrano un po’ per volta dalla serata, si sistemano accanto ai loro zaini e poi, all’unisono, si mettono a camminare nel buio verso di me. Vedo le loro lucine come stelline cadenti nella notte, eccole tutte intorno al mio sacco a pelo, si siedono in terra, o perlomeno è quel che intuisco dal movimento delle luci, e qualcuno fra loro si rivolge a me: «Possiamo restare un po’ qui a parlare?»

Di quel che ci siamo detti, ricordo solo con il cuore e non con le orecchie. Libri, futuro, il mondo, i viaggi, chi sono, le cosce troppo grandi, un pigiama buffo, la scuola da scegliere, vado all’estero, ma tu com’eri, dove vai, sono qui. Tutto si fonde nelle parole sussurrate a non disturbare la notte perché non si svegli e dia alla luce il giorno. No, restiamo qui nel buio, teniamolo acceso: e finché dura parliamo.

La sera prima, anche, avevano voglia di raccontarsi. ma con la luce ogni pensiero esce diverso, di taglio, mentre col buio sembra uscire per calore, per natura.

Il risveglio mi vede sempre primo. Tutti dormono, la notte è un ricordo e già penso al giorno che viene, ai miei impegni del festival. Perché è quello che sono chiamato a fare, non a dormire in palestra.

Mi faccio la doccia da solo, nessuno nei paraggi. Chissà se poi la usano per davvero, la doccia. Ritorno salutando il primo sveglio, Roberto di Pavia, che è figlio di un caro amico. Mentre mi vesto si svegliano tutti, un po’ per volta. Chi si stiracchia, chi non crede ai propri occhi, chi mi racconta che alle 3 son venuti sopra la mia testa a offrirmi una birra e io mi sono svegliato come in un incubo. Non ricordo nulla, maledetti.

Comprendo che questo luogo non è solo una palestra, è una specie di incubatrice di emozioni, quelle che abbattono barriere realmente, dentro anziché fuori, e restituiscono con naturalezza a una dimensione perduta per sempre in ognuno di noi, la dimensione della confidenza con le cose, le persone, con il proprio corpo da curare e con il corpo di un altro e di un’altra che non vedi nella sua perfezione, come quando si esce alla sera, ma nella sua bellezza, come quando ci si vede in pigiama.

Durante il giorno incontrerò tre dei miei coinquilini volontari a gestire il luogo di un mio evento. Li guarderò a lungo parlando al microfono, seguirò le loro facce. Ora sono qui, davanti a me, pronti e presentabili, ma l’aver dormito nella stessa grande stanza ci ha messo dentro una briciola di fratellanza. Ci capiamo da uno sguardo perché sappiamo chi siamo, o perlomeno vorremmo. Una delle volontarie è Lucrezia.

Quando dormono, al mattino, sono bellissimi. Dopo la scorsa notte, li sveglierei tutti a secchiate ghiacciate. Ripiego su una idea che avevo dal primo giorno: fotografare i loro piedi che dormono. Qualcuno sembra uscito dall’obitorio, qualcuno da un night di Charleston nel 1927…

La domanda più banale ma anche quella più complessa a cui rispondere è sempre perché sono qui. Forse perché, di tutti i movimenti, voltarsi è quello più faticoso.

Mentre suonano le sveglie dei ragazzi, con le loro melodie da autopista di paese, guardo il quadro svedese pieno delle nostre salviette. È diventato veramente un quadro, un Mondrian meno sintetico, un patchwork di colori che asciugano.

Festivaletteratura 11settembre10

Durante il giorno quei colori si staccano da lì e se ne vanno per l’aria del festival, a colorare questo e quello, e a far ritrovare a ogni volontario il proprio colore ora qui e ora in altro luogo. I ragazzi e le ragazze, alla sera, hanno parole da raccontare, cose che hanno saputo a modo loro, le orecchie piene di quanto accaduto negli eventi. Alcuni si emozionano a riportarle, sbagliano la pronuncia dei nomi ma la loro cronaca è certo migliore dei resoconti distaccati dei professionisti.

Si immedesimano, riposano, vivono. E tornano in questa specie di arnia come api che han succhiato il dolce delle loro scoperte. Comprendo che non potrò comprenderli, pur avvicinandomi, sono altri da me, con altri stili e altre parole per sopravvivere e farcela. Hanno un senso diverso del proprio corpo, della sua presenza tra i muri del mondo, forse troppo spessi per loro, volano di fiore in fiore con leggerezza. Fai della tua vita una storia tua. Se non lo farai, sarai solo parte della storia di un altro.