La repubblica delle farfalle

La repubblica delle farfalle

Rizzoli, Milano
pp. 280 – € 14,00
ISBN 978-8817063852
(4 edizioni)

BUR, Milano
pp. 280 – € 10,00
ISBN 978-8817078764

La toccante storia dei ragazzi del ghetto di Terezin, un inno alla vita contro gli orrori e la violenza del nazismo

Una voce lucida e impietosa, una prima persona che sa mescolare il dolore e la poesia per raccontare in forma di romanzo la storia dei bambini e dei ragazzi rinchiusi nel ghetto di Terezin: prima della deportazione verso i campi di sterminio, sono impegnati nello sforzo di mantenere una parvenza di normalità in una vita che di normale non ha più niente. Un gruppo di adolescenti reagisce alle violenze, ai soprusi, alla paura dell’inevitabile mettendo insieme un giornalino con i contributi di tutti, anche i più piccoli: disegni, poesie, rubriche, recensioni. Così le riunioni di redazione diventano un momento prezioso per scambiarsi pensieri e timori ma anche per dare spazio alle aspirazioni e ai sogni.

Ben Kingsley legge La repubblica delle farfalle a Terezin

Terezín tutto intorno

Terezin ragazza

(postfazione per l’edizione SuperBUR)

La prima volta a Terezín, per me, è stata sotto una nevicata. Era il 30 di gennaio del 2002. Mio fratello si era trasferito da poco a Praga per lavoro e avevo deciso di andarlo a trovare. Per me che mi occupavo già di Shoah, sapere che Terezín fosse a un’ora di strada alimentava non poca curiosità: presi la decisione una sera nella quale le previsioni del tempo annunciavano un clima rassicurante per il giorno successivo. Salii sull’autobus numero 17, la linea per Litoměřice, sfidando una potentissima tempesta di neve. Maledette previsioni. L’autobus uscì dalla città e si infilò nelle campagne piatte e bianche fino al cartello di Terezín. Scesi solo io nel ghetto, e da quel giorno capii che quel luogo avrebbe rappresentato qualcosa di più di un nome dentro tanti libri di storia e di una indicazione geografica tra milioni di altre.
Mi sono affezionato a Terezín. Sembrerà strano, ma è così: d’accordo, solitamente ci si affeziona alle persone. Spesso a un animale. A volte a un luogo dal passato meno sinistro. Però a Terezín c’è qualcosa che mi parla al di fuori dell’orrore che lì si è compiuto, al di là degli ebrei che vi soffrirono e vi persero tutto. C’è un’aria che ogni volta mi racconta l’esistenza più della distruzione, il coraggio più dell’abbandono, la vita più della morte. Per questo ci ritorno ogni anno. E certi anni più di una volta.

Sarebbe logico e un po’ banale pensare che Terezín ti entri dentro. Penso di no. Terezín è intorno a te, come stava intorno ai ragazzi di settant’anni fa: li rinchiudeva con i suoi bastioni, la sua forza di mattoni era alleata perfetta dei nazisti. Nemmeno oggi ti entra dentro: sei tu che entri in Terezín, sei tu che oltrepassi il ponte, il portone, attraversi il bastione in quella breve galleria che fa da varco, come una bocca che ti inghiotte. Terezín ti attende, ma resta tutto intorno. Non c’è traccia di Terezín in te, ma ce ne sarà molta in quel che vivrai dopo, in quel che scriverai. Anche quando non ci penserai, un pochino di Terezín ti sarà rimasto sulla maglietta, a ricordarti chi sei.

Ogni casa ha un odore. Anche la mia casa lo ha, ma per abitudine non lo sento più. Le case degli altri, quando ci entri, hanno un odore particolare. È la storia di quella casa ad averlo creato: l’odore dei muri e dei mobili, l’odore delle persone, i profumi che si mettono, l’odore dei panni puliti o del cibo cucinato, di un camino quando c’è, di un bambino nell’altra stanza. L’odore di Terezín è un misto di fiori e umido, terra argillosa, liquore alle prugne, pietre sbriciolate, corteccia. Se porti a casa un sassolino, quel sassolino sarà diverso dai sassi che troverai sulla strada dalle tue parti.

Moltissime persone ogni anno vanno a Terezín. Scattano foto, le caricano nel web e le abbandonano al loro destino. Da tempo le cerco e le osservo con pazienza quasi certosina: attraverso una serie di parole-chiave non me ne faccio sfuggire nemmeno una. O almeno penso. Sono interessato e curioso, vorrei poter vedere Terezín come lo vedono gli altri, vedere quei luoghi con gli occhi di un altro.
Non mi interessa conoscere cosa hanno provato tutte quelle persone che sono state a Terezín negli ultimi mesi. Non sono un guardone dei pensieri, e preferisco che quel che passa nel cuore di un altro, nel ghetto, rimanga ancora un segreto. A me interessa capire Terezín, e per capirlo so che i miei occhi non bastano. Devo provare a guardarlo attraverso altre pupille, culture differenti, storie lontane dalla mia, lingue sconosciute. In fondo è lo stesso meccanismo che ci porta a leggere molti libri sullo stesso argomento: vedere con la mente di un altro, perché anche la nostra si arricchisca, cresca.
Ebbene, le fotografie di Terezín rappresentano tutte l’orrore. Ve lo posso assicurare dopo anni e anni di frequentazione web: quel che si trova sono tutte immagini di luoghi lugubri e bui, senza speranza, scritte inquietanti in tedesco, androni, prigioni, cortili fangosi, corridoi infernali. Come se al dramma della storia fosse necessario aggiungere uno strato di tristezza, come se non bastasse sapere quanto è accaduto ma si dovesse mettere in scena anche il proprio umore, intristendo ancor di più lo scatto.

Finché non ho trovato una foto spettacolare. Mi è apparsa come per caso, nel mucchio di foto che riportavano la parola “Terezín” da qualche parte. È stata scattata da un ragazzo turco alla sua ragazza: in quel momento sono in gita con la classe a Praga, e in una giornata del tragitto si ritrovano proprio a Terezín. Sostano in un parco che conosco bene e lei si siede su una panchina dopo aver raccolto qualche foglia da terra. Vi chiedo di sforzarvi per immaginarla: vedete che le foglie sono di tre colori diversi? Una secca e marrone, una gialla ma ancora forte, una verde. Come nata ieri. Chissà se noi, oggi, siamo quella foglia verde. Chissà se la storia prima di noi è una foglia secca che si sbriciola via, o se è una foglia gialla ancora forte, in fondo bella da vedere.

Quel che più conta in questa foto, nella foto della ragazza turca, è che non è triste. È una foto piena d’affetto in un luogo che a molti parla d’altro. Perché è Terezín. È Terezín quella terra sotto la panchina, sono Terezín quegli alberi, i sassi che calpestano le sue scarpe ed è Terezín perfino l’aria che le entra nel naso. Sono Terezín quelle foglie. Eppure potrebbe essere stata scattata nel parco felice del suo paese, della sua città, chissà dove. Perché Terezín non è entrato in lei, nella ragazza, non l’ha scalfita: è lei ad essere entrata in Terezín, ad averci portato se stessa, l’odore di casa sua, il suo sguardo d’amore sulle cose.

Tutto intorno a lei c’è Terezín, ma la ragazza è piena di una noncuranza che solo gli innamorati possono comprendere. Qualcuno lo interpreterebbe come un gesto irrispettoso, ma chi frequenta Terezín con assiduità sa quale valore abbia una panchina in un parco dentro un ghetto che vide rinchiuse decine di migliaia di persone, molte delle quali coetanee di questa ragazza. Fra loro non tornò praticamente nessuno.

Questa foto è solo una vittoria, probabilmente minuscola ma pur sempre vittoria: è la storia che non l’ha avuta vinta, è il passato orrore che non l’ha avuta vinta. La noncuranza della ragazza è la nostra vittoria, e lo saranno tutti i minuti che verranno dopo, dopo la foto.

Quel giorno, il 30 gennaio del 2002, sotto la potentissima tempesta di ghiaccio che chiudeva l’orizzonte e copriva ogni cosa di freddo, mi facevo largo tra i cumuli bianchi per raggiungere un luogo coperto. Esausto, spostai una bracciata di neve da una panchina e mi ci abbandonai. Non durò più di un minuto, penso. Il cielo bianco sopra di me, gli alberi senza foglie, l’odore dell’inverno e Terezín che mi attendeva, che incrociava per la prima volta il suo sguardo con il mio, lui paziente e io impaziente. Quella panchina, la mia panchina, era la panchina della foto.

La repubblica delle farfalle
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