Guardare con le orecchie

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Andersen – La colpa è del re Davide. Lui cantava le parole dei Salmi ma i Salmi sicuramente non li aveva scritti: era un interprete, un crooner senza microfono ma con una gran bella voce. E poi era il re, e un re con una cattiva voce non esiste, e se esiste nessuno di sicuro glielo dice. Oggi mettiamo insieme le parole con la musica per raccontare storie o per leggere libri ad alta voce, ad un pubblico di ragazzi, famiglie, adulti. E siamo convinti di dover ragionare sull’unione di parola e musica, e su quale senso abbia, e su quali valori quest’unione aggiunga all’una e all’altra. E invece no. L’umanità non s’è inventata una relazione tra le due: casomai s’è inventata la disunione. Se scaviamo indietro nel tempo, troviamo che la musica e le parole sono ben salde. I suoni degli animali, quelli che volgarmente chiamiamo “versi”, sono quasi sempre musicali, ossia vicini a un ritmo, a una intonazione. In certi casi addirittura a una melodia. La lettura stessa, naturalmente dopo l’invenzione della scrittura, è sempre stata ad alta voce. O almeno così pare: curiosamente non disponiamo di registrazioni di refettori di monaci benedettini o simili.

 

«Amo Lester perché ogni volta che fa un assolo col sax non sta solo suonando, sta raccontando una storia» (Billie Holiday)

Con la modernità, ci siamo inventati che le parole possono viaggiare da sole e la musica idem. Senza pensare che in fondo gli scrittori da noi più amati hanno una musicalità impareggiabile nei loro paragrafi, e che le musiche a cui siamo più legati ci hanno segnato perché hanno raccontato una storia alle nostre teste, o ne hanno fatta nascere una tutta nostra dentro di noi. La scrittura senza musicalità ci si mostra spesso arida: è l’etichetta con le istruzioni per il lavaggio, è il libro di Analisi Due. E la musica che non racconta nulla è la suoneria del telefono, è il carillon (che difatti viene usato spesso nei film dell’orrore). Billie Holiday parlava di uno dei suoi uomini, il sassofonista Lester Young, e lo descriveva così: «Amo Lester perché ogni volta che fa un assolo col sax non sta solo suonando, sta raccontando una storia». E se lo diceva Billie, possiamo crederci.

Per me è cominciato dieci anni fa con Raymond Queneau. Me l’ero pappato ai tempi dell’università, e quando mi proposero di fare qualcosa dedicato alla lettura, mi venne in mente di leggere alcuni pezzi da Troppo buoni con le donne e da altri libri del francese. Chiesi a mio cugino dj (fa sempre comodo avere un cugino dj, ve l’assicuro) di accompagnarmi con musiche elettroniche. Accettò. Per dare un tocco francese decidemmo di lasciarci crescere i baffi: sembravamo usciti da un documentario su Brassens. La serata non si teneva in una biblioteca ma in un pub di provincia, sulle colline. Era ottobre e faceva fresco, in quel locale di solito facevano del punk rabbioso. Arrivammo e montammo le nostre cose: la serata si intitolava Zazie c’est moi e calò un silenzio davvero particolare. Ricordo che guardavo il microfono e oltre il microfono avevo una fila di giovani seduti in terra, ad ascoltarci. Ad ogni applauso pensavo che mi avrebbero ammazzato con qualche minuto di ritardo. Ne sono convinto: gli applausi non erano per noi ma per la bellezza di quelle parole.

Mesi dopo fummo contattati da una libreria di Forlì che ci invitò alle celebrazioni artusiane a Forlimpopoli. Sfilammo l’intera Emilia e l’intera Romagna per arrivare in un paesino con un castello meraviglioso e piadina ovunque. Eravamo nel fossato della rocca e davanti a noi stavano sedute nell’erba duecento persone armate di squacquerone. Il nome d’arte di mio cugino è John Belpaese, e io mi presentai come Matthew Crescenza. Ricordo soprattutto il viaggio di ritorno: la notte d’estate, poche macchine in giro, attraversare mezza Italia col finestrino giù a cantare canzoni. Capii che da scrittore si poteva anche andare in tour, e ci presi gusto.

Da lì sono nate quelle che per un po’ ho chiamato “conferenze musicali”, perché la parola reading mi faceva una gran pena e molto provincialismo, e fu superata solo tempo dopo dal termine spending review. Dimenticavo di dire che a quei tempi suonavo il theremin, un affare strano con due valvole termoioniche dentro, che si suona chiudendo un campo elettrico o magnetico con le mani. L’ho suonato anche nella sinagoga di Soragna, dove mi capitò di fare una conferenza musicale sui viaggi degli ebrei e suonai un assolo così lungo di theremin che alcuni in sala fecero in tempo a cambiare religione. Il rabbino che aveva introdotto il nostro incontro aveva detto: «Sarò breve, anzi circonciso». Poi il theremin l’ho venduto e coi soldi ho comprato un passeggino.

 

Per parlare della musica contemporanea, Luciano Berio diceva: «è un ricordo al futuro».

Ho collaborato con persone bellissime, con illustratori e altri autori, con musicisti e ballerine, orchestre e perfino con un gruppo di agguerrite cameriere di Milano, chissà che fine hanno fatto. Nei teatri, nei festival, negli auditorium e in un paio di palazzetti: ma ora ho capito che la mia epoca delle conferenze musicali è finita. Oggi faccio del vaudeville (che alla lettera forse vuol dire: voci della città). Lo vedo così: ogni volta che leggi qualcosa in pubblico stai facendo dell’avanspettacolo. Soprattutto se, dopo di te, lo spettacolo non c’è. Quel che fai deve essere talmente bello che lo spettacolo vero deve avvenire nelle orecchie e nei cuori di chi ti ha ascoltato. Però dopo, non subito. Subito è dozzinale, sono emozioni da due lire. La lettura deve creare uno spettacolo interiore dopo l’atto stesso. Per parlare della musica contemporanea, Luciano Berio diceva: «è un ricordo al futuro». La lettura per me non è altro che quello. Le parole rubano alla musica i ritmi e le melodie, la musica ruba alle parole il senso del racconto.

E poi va a finire che ti capita di leggere cose tue. O ti capita di farle leggere ad altri: a me è capitato con Cristina Boraschi, che è la voce di Julia Roberts e mi sembrava che sul mio libro qualche brava fatina avesse steso un incantesimo, trasformandolo da zucca a carrozza giusto il tempo della festa.

«Certo che per le musiche ti sei scelto i migliori», m’ha detto uno alla fine di una serata a Ferrara. Oggi ho 39 anni ma a 38 ho messo in piedi il primo gruppo musicale della mia vita, e non suono nulla. Si chiama Pavel Zalud Quartet e il nome ricorda un tipo che a Terezin costruiva strumenti musicali e li vendeva (anche) agli ebrei. Alcuni di questi strumenti li ho recuperati e fatti restaurare. E coi primi due ho fondato un quartetto. Enrico Fink suona il suo flauto e un ottavino Zalud. Gabriele Coen suona il suo sax e un clarinetto Zalud. E il clarinetto e l’ottavino sono stati a Terezin nel periodo della Shoah, e i loro proprietari ebrei di allora, musicisti, non sono scampati all’orrore. Ogni volta che questi strumenti suonano, sento sul palco una specie di nostalgia che non riesco a fermare. Coen e Fink sono davvero i migliori, sulla piazza klezmer-jazz. Con loro suona Riccardo Battisti, un bravissimo ingegnere della fisarmonica. E si va in tour, si gira, si mangia male e tardi, si fanno le scalette delle serate sui treni, si ride molto giù dal palco, credo anche per far scappare i demoni che ti si agitano nella testa, si cambia tutto all’ultimo, così, per il gusto di provarlo. E dentro di me mi è sempre più chiaro che tra tutte le strade che uno scrittore può imboccare, questa è la più strampalata. E la più affascinante.

Matteo Corradini