Natale a Collodi

Sarà la stagione, saranno le pietre disegnate del selciato luccicante, sarà l’azzurro leggero sopra i tetti bruni, o le casette o le stradine in salita e quel muschio nato nella breccia sotto la finestra, sarà che ti sembra di andarci con Geppetto in persona, ma Roberto Innocenti potrebbe mettersi a gridare «Pinocchio, Pinocchio!» e tutto ti parrebbe naturale, perfino giusto, non t’aspetteresti la signora che apre la finestra augurandoci qualcosa in toscano strettissimo, e dietro ogni angolo potresti vedere il burattino spuntare correndo col suo cappello a punta, e anche questo ti parrebbe naturale. Quasi quasi provo.

L’appuntamento è alla stazione di Pistoia, Roberto ha ancora la portiera in mano che già discute di come s’è messa l’Italia, di cosa potrebbe succedere. Non sappiamo che di lì a poco la maledizione del Paese dei Balocchi si sarebbe ritorta contro i suoi stessi asini. Andiamo verso Collodi, imbocchiamo rotonde e rotonde, poi sensi unici, deviazioni per lavori in corso, una nuova rotonda, ma questa l’avevamo già passata, ma prima sono andato di là, che faccio, seguo il navigatore, anche a me fa sempre scherzi. Accosto: ma come si esce da Pistoia? Roberto intanto mi parla delle edizioni più strane del suo Pinocchio: «In russo, con titoli e ricami dorati. E in georgiano, che scritta è una lingua talmente strana da sembrare finta. La guardi e ti senti quasi preso in giro».

Ce la facciamo, ora la terra è solo un’astrazione di capannoni, ora si defilano nello specchietto retrovisore, ora si apre la campagna più bella, colline di vigneti che attendono l’anno nuovo per tornare a fruttare, file di pioppi alti e impassibili come i gendarmi che conducono a braccetto Pinocchio. Non ce la fa: Innocenti è talmente preoccupato per l’Italia che ogni argomento è buono per pensare al nostro Paese. Parliamo di editoria e di come stanno gli illustratori in Italia, e se sopravvivono. Roberto mi risponde guardando lontano, oltre le colline: «Il mio editore più vicino è nel Minnesota». E mi pare per un attimo di vederlo, il Minnesota: dritto dietro il Chianti. Allora provo a fargli raccontare le illustrazioni che prepara per i libri di Camilleri in Germania, ma lui svicola e mi spiega come comincia i suoi incontri quando lo invitano a parlare all’estero. Dicendo: «Sono contro».

 

Leggevo Pinocchio alla sera. Non era una lettura rasserenante, anzi: m’addormentavo col pensiero che a quel poveretto capitava ogni cosa brutta, era da solo, inseguito, lo gabbavano. Lo impiccavano…

È come se Pinocchio incamerasse l’energia dell’illustratore più bravo di tutti: un pezzo di legno sul quale Roberto è tornato a più riprese e non ha mai smesso di meditare, un ragazzino che dialoga con gli ideali fortissimi che si agitano nel cuore dell’adulto, prima ancora che nella sua mano. Illustrarlo è difficile? I bambini oggi fanno cose assai complicate, ma certi editori vogliono la semplificazione, concetti semplici: Roberto non fa per loro.

«Leggevo Pinocchio alla sera. Non era una lettura rasserenante, anzi: m’addormentavo col pensiero che a quel poveretto capitava ogni cosa brutta, era da solo, inseguito, lo gabbavano. Lo impiccavano…» Sarà che siamo arrivati a Collodi, sarà che prendiamo due biglietti ridotti per il parco, uno giornalista («E uno anziano», aggiunge Roberto), sarà che ne usciamo presto per inerpicarci su alla parte vecchia, ansimando sulle pietre come Melampo. Arriviamo e ci sediamo e con soddisfazione guardiamo intorno: siamo in una illustrazione di Innocenti. A parte qualche bruttura recente, il paese è come l’ha visto Carlo Lorenzini, così vicino ai disegni di Innocenti che ti viene voglia di sfogliarlo e non solo di passeggiarci. Sospiriamo.

«Pinocchio è un disadattato. Nasce già grande, in età scolare. Come se lo avessero messo lì di colpo, spostato, costretto ad emigrare nel nostro mondo. Il mio è un Pinocchio timido per questo motivo. Non saresti timido tu se di colpo ti costringessero a vivere in Svezia, senza sapere la lingua, senza conoscere come vivono, cosa mangiano, come comportarsi? Il mio Pinocchio è a suo agio solo quando sta dentro il pezzo di legno, all’inizio, perché lui è legno e quella è la sua casa. È spavaldo solo in quella scena. Per il resto è uno travolto dagli eventi, dagli altri, da quel che succede».

Roberto parla al sole col tono del Geppetto premuroso, le nostre ombre giocano a seguire l’onda dei sassi. Una specie di affezione composta, come quei padri che guardano da lontano il figliolo commuovendosi. Pinocchio poteva essere scritto solo qui. «Non è indicato il luogo, ma è evidentemente la Toscana. Tant’è che c’è balocchi e non giocattoli, c’è babbino e non papà». Non è Mangiafoco, è più pescecane, Innocenti: i personaggi se li è mangiati quasi tutti.

Da Collodi vecchia si vede la pianura. È uno spettacolo che fa già pensare al Natale che arriva, a quando ci sarà neve sui davanzali. Te li avevano regalati a Natale i tuoi primi Pinocchi? «Da piccolo avevo due libri di Pinocchio, quello di Chiostri e quello di Mussino. Quello illustrato da Chiostri era in una edizione tascabile e spartana, era il Pinocchio di tutti i giorni, quello che potevi leggere dove capitava. Quello di Mussino lo avevo in una edizione bella, tutta cartonata e dorata. Era il Pinocchio della domenica».

E chissà se era domenica il giorno in cui finì la guerra al suo paese, perché se lo ricorda benissimo. Era un bambino, e bussarono alla porta di casa sua due soldati tedeschi. E quando bussavano i tedeschi si andava ad aprire, non c’erano storie. Con la paura nel grembiale, sua zia gira la maniglia. Sarà che ti fanno paura, sarà che te li immagini senza faccia come nei disegni per la storia inventata e vera di Erika. Sarà che sono due ragazzini impauriti e hanno una caciotta in mano. Aprono bocca: «Guerra basta, guerra basta». È l’unica cosa che sanno dire, sono esausti. Li fanno entrare, mangiano. Poi se ne vanno: un gatto e una volpe feriti per davvero e stufi di combattere, se ne vanno e non li rivedranno mai più.

Scendiamo a casa, la macchina ci guida in discesa verso Firenze. E Roberto non resiste: così si parla ancora di politica e di bugie, ma di quelle che fanno male, violente, non come quelle di Pinocchio. Che ne dice pochissime, in verità. E quella che sembra mentire più di tutti è invece la cara e buona Fata Turchina. Roberto ride: «Se la spassa a travestirsi, a spiare, a fingersi morta. Tant’è che Pinocchio dovrebbe reagire e finalmente dirle: “Oh Benedetta fatina, è vero che lo fai per il mio bene, però mi pare che tummi pigli pe’ ilculo, eh”.