Le dolci vite di Cinecittà

«Certo che non ci andiamo vestiti normali, scherzi?» rassicuro Vittoria al telefono. «Io avrò un Borsalino in testa. Tu usa un bocchino d’avorio». Lei: «Ho smesso da tempo ma mi fumerò una matita». Aggiungo: «E porta il costume da bagno ché c’è una piscina di settemila metri quadrati», ed è una profezia perché scendendo a Roma scopriamo che sei stazioni del metrò sono allagate per il maltempo di ieri. Roba da film, ma la nostra è asciutta. Siamo arrivati col treno. La vocina: «Tra poco ai passeggeri di prima classe verrà offerto un benvenuto a base di spumante». Sono le 7 del mattino, siamo in seconda e lo spumantino proprio no. Vittoria è fibrillante: «Madò, che emozione». Attraversare l’Italia su rotaie e guardarla tutta dal finestrino è una goduria per gli occhi e ti si rafforza nel petto l’idea di quanto sia bella, semplicemente bella, come la schiena di una ragazza coricata che ha ancora qualcosa da dirti, chissà se ce la meritiamo davvero. Colline e vapori, alberi e nuvole e a ciascuno la propria forma, filari intessuti, castellotti sparuti, stradine che seguono crinali vertiginosi. E tra le opere dell’uomo c’è Cinecittà. Chissà se è la geografia a fare le persone o viceversa, chissà se il cinema nasce da quel metro di terra dove viene detto ciak o dall’uomo che lo pronuncia. Non è il cappello a fare l’attore o la sigaretta l’attrice, o la carta a fare l’illustratore o viceversa. O è il boa a fare l’illustratrice? «E questo da dove spunta?», chiedo a Vittoria mentre indossa un boa di struzzo bianco lunghissimo che perde piume ad ogni sfruscio come un colombo in amore, lei se lo attorciglia con lenta eleganza intorno al collo. «È di Mino, il mio fidanzato», risponde e non riesco ad approfondire oltre perché ci coglie la tempesta.

 

In un luogo dove tutto è fasullo, perfino i suoni della natura ti paiono nati apposta per fregarti, per illuderti. Tuoni, aerei che sorvolano, cani che sembrano autentici rumori di scena.

Siamo entrati a Cinecittà scortati, tutto è rigorosamente sott’occhio, il luogo più cineripreso del mondo è in fondo timido timido. Possiamo guardare ma non fotografare, toccare ma non carezzare: siamo sul set di Gangs of New York, una Broadway della fine dell’Ottocento per Scorsese. Da lontano la vedi perfetta (hey pupa) ma più t’avvicini e più vedi rughe e rattoppi, trucchi, intelaiature, pensi a quanta gloria e stupore viene da questa fragilità, quasi fatiscenza, sarà la pellicola il segreto, case profonde lo spazio d’una impalcatura e il sole, che fino a quel momento aveva resistito nel cielo, cede a una nuvola troppo lusinghiera e dall’aria si scatena il tornado. Le strutture che reggono i fondali fischiano e si agitano come scosse da elefanti che si grattassero il sedere là contro, volano foglie e cartacce nell’aria ed ecco che piove, di colpo come nei movies, qui non si può e corriamo a ripararci verso la zona di Roma antica ferma al 51 a.C. per una produzione HBO. «E il tuono rituona, madò come tuona il tuono», fa appena in tempo Vittoria ad appuntarlo mentre la abbasso per evitare che un intero portichetto augusteo in vetroresina le finisca sulla testa, tu quoque portichetto. Vediamo il vestito di Cleopatra che ha ospitato Liz Taylor e quello della Ekberg della Dolce vita (di lei Fellini diceva: «Quel senso di stupore rapito che si prova davanti alle creature eccezionali come la giraffa, l’elefante, il baobab…»), sono semplici ma li ricordavi bellissimi sullo schermo, sarà per gli occhi e per i sorrisi. In un luogo dove tutto è fasullo, perfino i suoni della natura ti paiono nati apposta per fregarti, per illuderti. Tuoni, aerei che sorvolano, cani che sembrano autentici rumori di scena. «Forse non era un temporale, è il bum bum bum di un cuore gigante… chissà».

È una città nella città, nata dal fuoco diversi secoli dopo Nerone, a proposito di antichi romani, al posto dei vecchi studi Cines andati distrutti per un (ancora misterioso) incendio. L’idea fu spettacolare: edificare il più grande centro di produzione cinematografica in Europa. E da allora fu sogno e star, popolarità, dolce vita, Quo vadis? e Ben Hur, la “Hollywood del Tevere”, talento e arte, Visconti, Scola, Pasolini, Comencini, Zurlini, Fellini… con una specie di predilezione per tutti questi diminutivi nel cognome ma grandi, grandissimi nelle opere. La voce della luna, Ginger e Fred, E la nave va, La città delle donne, Il Casanova, Amarcord, I clowns, Satyricon… non hanno in comune solo Fellini come regista, ma anche Cinecittà come set. Federico diceva: «È la casa del mio lavoro». Vittoria mi guarda e aggiunge parole sue: «Una memoria impastata di sogno, colore, lustrini, madò, attese, pianti, in odor di “stregoneria” di cinema». Eccolo, è l’odore del cinema, non è magia ma stregoneria, furfanteria di incantesimi, misto a questo dei pini marittimi. Non sono solo le voci, non è solo Mastroianni che diceva: «Cinecittà rimane una bella fortezza. Mentre di fuori c’è l’inferno, dentro quelle mura si continuano a narrare delle fiabe, ora amare, ora dolci, ora divertenti». Qui in ostetricia senti da vicino l’odore del cine che nasce, nascerà. Vittoria apre una sua scatolina di cartone bianco foderata di scotch con le scritte rosse “fragile” e tira fuori appiccicamenti, spugnette, pin-up, occhi dolci e facce pazze, figurine, stelle, polverina brillantina: «Volevo che anche loro vedessero Cinecittà. Madò, qui è un baccanale per le mie matite». E infatti disegna, disegna tanto con le sue mani veloci, è una follia di colori che prendono esistenza sul quadernino rosso.

E arriva il premio inaspettato. «Se fate i bravi vi porto nella parte povera di Roma antica, nella Firenze del Cinquecento e sul set del prequel dell’Esorcista», ci dice Giovanna, la nostra accompagnatrice. «Ma solo se non fate foto». Giuriamo sulla testa di Minghella e del suo paziente inglese e il cielo si rischiara di colpo, scenograficamente come avesse capito, e la pioggia accesa dal sole dona un luccicore improvviso alle superfici, a quei dieci metri di balcone di San Pietro sospeso nell’aria che è servito a Nanni Moretti per il suo papa, finché non vedo nel prato un ammasso di parallelepipedi d’acciaio alla rinfusa ma tutti collegati, una specie di bruco meccanico alto come una stanza. «Dentro è un sommergibile», ride Giovanna. Giriamo davanti allo Studio 5 dove dirigeva Fellini. Lì vicino ha lavorato Liza Minelli e mille, mille altri. Vittoria dietro le mie spalle spazzola in terra: «Ho rubato due sassetti, li ho trovati qui. Vabbé, è cemento pittato, lo so, ma sono per me come ritrovamenti archeologici». Reperti di epoche vicine, come nello studio dello scultore di scena, circondato da finte statue di Fidia, rinascimentali o risorgimentali, una collezione di gessi. Vittoria ha come una sindrome di Stoccolma culturale, vorrebbe mettersi ad abitare laggiù, dove han girato il ballo del Gattopardo e ora è pieno di testoni, trabiccoli, mezzi cavalli, condottieri, donne procaci.

È arrivata la sera, tiriamo il fiato su una panchina all’ingresso. Davanti a noi Cinecittà sta per andare a riposare, la città dei sogni diurni rallenta il ritmo fino a rilassarsi. M’appoggio allo schienale, Vittoria termina i suoi disegni aggiungendo colori, collage, qualche parola che ricorda meglio. La pellicola diventa quella dei finali, un po’ stanca e opaca. Ci salutiamo: che giornata. Che bella giornata. Ciao amici, buona la prima, titoli di coda, madò.