Non vi ho detto che ero felice

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Non vi ho detto che ero felice. Che ero felice a vedervi già nella stanza, prima che arrivassi. A vedervi curiosi e incuriositi, a vedervi contrariati, fintamente offesi, divertiti. Appassionati, in una parola. Non vi ho detto che siete un bel gruppo solo perché siete belli a uno a uno. E che siete belli a uno a uno anche perché siete un bel gruppo. Non vi ho detto che non so nulla di voi, e il rammarico è non avervi potuto ascoltare di più: sono pagato per guidare il bus, e non si parla col conducente (teoricamente).

 

Non sono pagato per dirvi che sono felice, ma giuro non l’ho fatto per questo. Non l’ho fatto perché avevo paura. Di affezionarmi.

Vi avrei chiesto come state più spesso, avrei voluto conoscere il motivo di una smorfia, di un sorriso, l’attesa di bambini che arriveranno, il perché di certi colori, di certi neri che portate addosso, o come guardate a certe date del calendario che dovranno arrivare, a come si vive su per una collina sperduta, a cosa vi dicono i vostri ragazzi, i vostri problematici “utenti” ogni giorno. Non sono pagato per dirvi che sono felice, ma giuro non l’ho fatto per questo. Non l’ho fatto perché avevo paura. Di affezionarmi. Perché l’ultima volta che m’è capitato in università è stata dura abbandonare, camminare in corridoio, risalire in macchina e ripetermi che è come se nulla fosse, e fosse stato. A vedervi come vedevo i miei studenti quando ancora insegnavo. Oggi, qui, ho capito che mi ero affezionato a voi, sì, proprio a voi, e lo si capisce sempre troppo presto, o troppo tardi. Ci si lascia andare ma guarda, chiudono, è ora di tornare. Ho spento la luce della stanza guardando le sedie vuote. Voi eravate già in macchina, verso casa.