Chi ha disegnato le curve al Sestriere?

Ed è solo lì che te ne accorgi, non è quando senti il pedale che si blocca, non è quando il sudore ti entra nei guantini o quando inarchi una spalla sbuffando e nemmeno quando stringi più forte il manubrio, come a volerla domare, maledetta salita, maledetta bicicletta da corsa. È solo quando ti volti e vedi dietro di te la discesa ripida che hai percorso al contrario, ma non guardi la strada e i sassi che nascono e rotolano via dall’asfalto di montagna, guardi invece i denti del cambio e hai la paurosa sorpresa d’avere inserito quello più grande, più facile, quello che ti porta su più leggero. Dopo di quello non ne hai più, o la bici sale così o puoi anche fermarti e arrenderti, condurla in cima per mano come si pascola una pecora. Magari nera.

Siamo scesi dalla macchina e guardiamo le cime. Andrea Valente era già a Mondovì per incontri (credo ne faccia diecimila all’anno). Ci incontriamo in una trattoria sperduta nei prati e prima di accomodarsi mi mette davanti una copertina della Domenica del Corriere: mangiamo con Fausto Coppi seduto accanto a noi, ma giù dal sellino (Dama Bianca inclusa) le sue vicende sono meno interessanti. Noi vogliamo le sue storie in bicicletta.

Il 10 giugno del 1949 si correva la diciassettesima tappa del Giro d’Italia: è l’anno in cui il mito di Fausto diventa concreto con 192 chilometri di fuga a scavallare cinque passi alpini. Mario Ferretti lo incoronò prima del tempo: “Un uomo solo al comando” aprì la radiocronaca. Ma per me le parole più belle sono quelle che vennero appena dopo: “la sua maglia è biancoceleste”. Guardo le nuvole e il cielo mi ricorda quel colore slavato sulla schiena di Fausto, solo contro la montagna: per qualche ora lui e il cielo furono una cosa soltanto, nella stessa squadra. «Coppi percorreva le salite come gli altri le discese: staccava tutti al terzo giro di pedale e ci vediamo lassù», mi dice Andrea. E aggiunge: «Le discese, per coerenza, le percorreva come gli altri le salite, ma siccome in salita era il più forte di tutti, finiva che anche in discesa non c’era uno che ne tenesse il passo». Era come Faust, l’anima al diavolo venduta in cambio della forza d’andare in bici. Aveva una O in più, una ruota di scorta aggiunta al nome.

 

«Mia nonna di cognome faceva Moser», mi dice. «Ma aveva sposato un Ferrari».

Arriviamo a Ël Sestrier (piemontese), Sestrieras (occitano), Sestrières (francese) tra le bandiere tricolori ad asciugare nel sole, i bambini escono da scuola e ci passano accanto coi loro fagotti colorati pieni di libri. Alla nostra sinistra il pullmino giallo e più dietro una gran discesa bianca luccicante accoglie ancora sciatori. Qui comincia la neve perenne, e alle elementari ridevamo perché ovunque in Italia comincia così. Noi accaldati in maglietta incrociamo ragazzoni vestiti da astronauti o esploratori polari con lo snowboard in spalla. Ciclisti, esploratori spaziali o polari… c’è qualcuno che non è stato accompagnato da Andrea?

«Mia nonna di cognome faceva Moser», mi dice. «Ma aveva sposato un Ferrari». Ci sediamo e si commuove un po’ raccontandomi delle biciclette che ha avuto, come fossero vecchie amiche che non si incontrano da tempo ma alle quali si avrebbe ancora qualcosina da dire: «La prima era una Torpado bordò, senza cambi, poi una color champagne con tre cambi, e una nuova bordò con cambio Campagnolo. Quando vivevo negli Stati Uniti ne avevo una gialla da corsa, molto prima di Armstrong». Lance o Neil non importa, penso. Ma mi viene in mente Louis e le sue guance gonfie e la sua musica mentre osservo le curve della strada lungo il pendio della montagna, le curve che Fausto percorse in salita e in discesa per vincere. Chissà chi le ha disegnate: sottili come gioielli o larghe come cinture, s’avventurano a strapiombo e inducono vertigini solo a guardarle, si nascondono allo sguardo e spuntano più in là, convinte di non esser viste. Sono il domicilio di Coppi e Gino Bartali, cerchi di guardarle come le guardò l’Italia ferita in quegli anni, giusto per crederci, per dire a se stessi che ce la si può fare e anche per dirselo insieme. Su ciascuna di quelle curve Fausto passò per pochi secondi ma tutte insieme lo tennero impegnato per 9 ore, 19 minuti e 55 secondi. Poco meno di 12 minuti dopo arrivò Bartali. E 7 minuti dopo Bartali terminò al traguardo Alfredo Martini, che anni dopo ricordò d’aver bucato diverse volte.

«Per andare sulla luna in bicicletta / pedalando notte e giorno senza fretta / ci impieghi quattro anni o forse più / senza mai fermarti a far pipì o pupù», Andrea cerca di cambiare discorso ma da qualche minuto è diventato Premio Andersen e non sa ancora come si reagisce ad una notizia di quel genere. Ricordo quando andai la prima volta nel suo studietto seminterrato pieno di disegni, progetti in cantiere, disegni, spazzolini della Pecora Nera: viveva a Pavia e al telefono gli avevo dato del lei, che uomo cortese che ero. Ma ricordo anche quando annunciarono il Nobel a Dario Fo: era in macchina con Ambra Angiolini a registrare un programma. «Sono la tua Ambra», dico ad Andrea per rasserenarlo. Essere un Andersen per un autore è come vincere un Giro per un ciclista, ci si arriva solo con la maglietta meno sudata. Forse.

«Tieni», gli dico. L’idea è della nostra amica Claudia di Cuneo: gli allungo una margherita raccolta nel prato accanto, Andrea la mette in bocca come tanti suoi disegni hanno già fatto nel tempo. Ci godiamo il caldo e il silenzio, come se una margherita tra i denti potesse già dire tutto di quel che è stato, di quel che sarà.

Poi Andrea mi saluta con le portiere aperte, la mia macchina di fronte alla sua. Chiude la giornata: «E comunque preferisco un girasole a un giro in bici». Bisognerà ragionarci, sulla solitudine degli autori come sulla solitudine dei ciclisti. Sì, ci sono i lettori, sì, c’è il pubblico sul rettilineo che batte le mani. Ma su quel sellino, davanti a un manubrio o a un tavolo da lavoro, sei solo sempre come mai, sei tu coi tuoi affanni, la tua voglia, tiri tiri o ti ritiri, stringi stretto il manubrio o la matita, sei ironico e profondo ma la cima la vedi lassù, guardi i cambi e non ne hai abbastanza e non sai nemmeno se avrai il fiato per dire basta.

Poi un giorno esce il sole, la cima è lì, te lo dice la ruota davanti, rassereni la schiena e t’accorgi, ma è un momento soltanto, d’avere una margherita in bocca. E che per volare bastava solo alzarsi sui pedali.