Impronte

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Ricordo come uno dei periodi più intensi della mia vita quell’anno da obiettore di coscienza, in servizio sui diversi campi nomadi di Piacenza (non erano ancora stati unificati in un unico luogo, i sinti erano in tre zone della città). I sinti non sono tutti uguali, provengono da storie molto differenti, hanno origini lontane nella geografia e nel tempo e hanno anche molte cose da raccontarti. Chiedersi se “sono come noi” è un discorso vecchio e poco sensato. Ormai sappiamo bene che nessuno al mondo è come noi, siamo diversi per mille motivi. Ma la bellezza della diversità viene valorizzata solo se non incide sul benessere, e insistere sull’etnia (come accade in questi giorni) significa accelerare nel razzismo e non nella curiosità della conoscenza. Se è un governo a farlo, c’è da preoccuparsi: oggi un ministro vuole prendere le impronte digitali di sinti e rom, con motivazioni che ricalcano vecchie scuse già applicate una settantina di anni fa. M si fa solo della retorica, a richiamare le leggi razziali fasciste o i provvedimenti nazisti contro i rom: si sposta il problema al dibattito sul passato, perdendo colpi sul presente. Ci sono rom che delinquono, ma ci sono tanti rom (sono la maggior parte) che pur nelle difficoltà sociali ed economiche che vivono non si lasciano andare a comportamenti contro gli altri italiani o contro la legge, e dimostrano una resistenza fortissima contro una situazione che metterebbe alla prova (e probabilmente sconfiggerebbe) molti di coloro che vivono meglio, molti di noi. Se si entra anche solo per cinque minuti nella roulotte di un sinto, si percepisce una dignità fatta di dettagli e piccoli cose. Ora, nessuno si sognerebbe di prendere le impronte digitali ai figli di grandi speculatori di borsa o ai figli di certi immobiliaristi furbetti, perché le colpe, in una società matura, non ricadono sui figli e la legge non colpisce le categorie ma gli individui che l’hanno violata. In più, pensate a quale putiferio.

 

Solo chi frequenta i sinti e i rom può intuire ciò di cui hanno realmente bisogno.

Contro i rom e i sinti può sembrare perfino ragionevole, una schedatura di questo genere, e qualcuno considera questa scelta auspicabile. Solo chi frequenta i sinti e i rom può intuire ciò di cui hanno realmente bisogno: basterebbe chiedere agli operatori, ai volontari, alle persone (in Italia sono molte) che abitualmente portano e ricevono amicizia nei campi nomadi.
I rom e i sinti possono lasciare una impronta dentro di noi, possono essere una minoranza che aiuta a migliorare una maggioranza. Possono scuoterci, colpire a ditate l’indifferenza: avvicinarsi a loro senza pensare che siano alieni o nemici sarebbe un passo importante per molti italiani, un segno di confronto valido anche per altri gruppi e minoranze. È l’impronta più bella che possiamo chiedere loro di lasciare, ma è anche quella che ci fa più paura.